di Barbara Gallucci | Foto di Fabio Cuttica
Per anni è stata la città più pericolosa del mondo, ora è diventata una meta sicura, divertente, carica di una nuova energia positiva che è partita dalle periferie e ha contagiato tutti
L'appuntamento con Chavo è alla fermata San Javier, capolinea della metropolitana leggera e del MetroCable, la funivia che, dal 2004, collega valle e barrios della collina. «De donde eres?», «Milano, Italia». Sgrana gli occhi e poi sorride contento di sapere che la voce di Casa Kolacho e della Comuna 13 sia arrivata così lontano. «Nasciamo come collettivo di rapper, dj, breakdancer, writer, ma abbiamo anche deciso di raccontare da dove veniamo e condividere l’esperienza con quante più persone possibile», parla a ritmo, con una cadenza tipica dello spagnolo Paisa (della regione di Antioquia della quale Medellín è capoluogo) che si impara a capire piuttosto alla svelta con quel “vos” al posto del “tu” che ricorda un po’ gli anziani del Sud Italia. Solo che Chavo non arriva ai 30 anni e ha lo stesso look dei ragazzi del Bronx. Saliamo con le scale mobili in cima alla Comuna 13, il barrio o quartiere forse più famoso di Medellín costruito a terrazzamenti. Le scale sono state inaugurate nel 2011, le prime della Colombia, diventando una vera e propria rivoluzione meccanica che è diventata culturale. «In molti conoscono questo quartiere per le sue tragedie (la più nota delle quali fu l’Operación Orión, nel 2002, quando l’esercito combattè una battaglia per riconquistare il territorio spartito tra guerriglieri, narcos e paramilitari lasciando però a terra più di 40 morti, soprattutto tra i civili, ndr). Poco dopo è partita dagli abitanti la volontà di cambiare e, nel 2003, c’è stata la prima edizione del festival Revolucion sin muertos». Sulle facciate delle case decine di graffiti raccontano questa e altre storie, mentre un gruppo di giardinieri volontari capitanati da un ragazzo inglese, sistemano le aiuole.
Medellín è un corso accelerato di storia contemporanea della Colombia. Ultimo Paese latinoamericano in guerra, contro i guerriglieri delle Farc con i quali è durata fino al 2016, ha dovuto anche affrontare l’altra guerra, quella che per molti è solo una riuscita serie tv in streaming, quella contro i narcos. E a dire narcos non si può non citare quello che a Medellín era il re assoluto, Pablo Escobar. Con un’eredità simile sulle spalle Medellin avrebbe potuto stagnare nel ricordo di un’epoca sanguinosa, ambigua, frustrante e castrante. Invece è successo l’opposto. Tutto è cominciato grazie a un professore di matematica con il pallino per l’immaginazione partecipata che è stato sindaco dal 2004 al 2007. Sergio Fajardo aveva un obiettivo chiaro in testa, trasformare Medellín in una città più educata. In un luogo normale non sarebbe nemmeno così complesso, ma quando raggiungi i seimila omicidi all’anno (il picco negli anni Novanta), la strada verso la normalità è lunghissima. Non l’ha fatto aumentando il numero di poliziotti in strada, ha inaugurato nuovi spazi comuni: parchi, biblioteche, ludoteche, un giardino botanico, ha cambiato la mobilità pubblica, inaugurato musei. Ha trasformato uno dei luoghi più pericolosi del pianeta in una città vivibile e da scoprire, della quale i suoi abitanti potessere godere ed essere orgogliosi. Il suo esempio è stato Antanas Mockus, professore di filosofia e matematica, sindaco di Bogotà alla fine degli anni Novanta e poi nei primi Duemila, anch’egli convinto che la rivoluzione dovesse passare dall’educazione. Le due metropoli, in effetti, sono sbocciate, ciascuna a modo suo (vedi approfondimento).
Per vederla dall’alto la rivoluzione basta salire sul MetroCable, la funivia che porta pendolari, bambini di ritorno da scuola, curiosi. Hannah e Peter sono tedeschi e viaggiano con la loro bimba di due anni, sono saliti per vedere quanto è grande Medellín. Juanita invece fa l’infermiera e torna a casa dopo il turno in ospedale. Nonostante faccia il tragitto tutti i giorni sgrana gli occhi comunque guardando il panorama e i tre milioni di suoi concittadini che vivono a 1500 metri d’altitudine in una ampia valle circondata da colline affollate fino ai confini con le foreste. Sotto di noi la vita quotidiana di chi stende i panni, di chi sgomma in motorino, di chi fa acrobazie in bici, di chi chiacchiera al telefono. La normalità, insomma. Dall’altra parte della valle Juanita indica i grattacieli e le torri di appartamenti di lusso del Poblado, il quartiere chic, dove «la vita è molto diversa da qui. Da quelle parti viveva anche Pablo». Lo chiama così e non aggiunge altro. Il turismo legato a Escobar è fiorito grazie alla serie tv, ma non è seguendo le sue tracce che si capisce la Medellín di oggi. Piuttosto vale la pena passare una serata nella Zona Rosa, tra la Calle 10 e la 8. Qui sì che si ha l’impressione di vivere in una città normale, dove ci si diverte, si mangia bene e si gode dell’eterna primavera climatica. Si trova anche da queste parti la bandeja Paisa (il piatto più comune con carne, riso, salsiccia, verdure, uova e arepas di mais), ma trasformata in un piatto gourmet un po’ più leggero e delicato. Si ascolta il rap dei barrios mischiato alle hit internazionali e si fa shopping in negozi che non sfigurerebbero a Los Angeles, e tra l’altro anche qui non mancano il traffico e le salite e discese della metropoli californiana. Ogni città del mondo ha una zona così, dove l’impressione è che l’imperativo sia godersi la vita.
E sembrano godersi la vita anche i soggetti delle 23 sculture in bronzo realizzate dallo scultore colombiano e Paisa per eccellenza, Fernando Botero. La Plazoleta de las Esculturas è un punto di ritrovo nel cuore della città. Da qui si parte per andare alla scoperta de La Candelaria e Villanueva, i due quartieri centrali di Medellín, ma prima di muoversi è irresistibile il gioco del trova le somiglianze tra chi si fa selfie e le statue. La bandeja Paisa lascia il segno sul punto vita anche dei colombiani contemporanei; d’altronde lo stesso Botero ha più volte dichiarato: «Si dipinge quello che si conosce meglio; quello che si è vissuto in gioventù. Il mio mondo è quello che ho conosciuto a Medellín e non ritraggo mai nulla di diverso anche se ho vissuto a New York e a Parigi per anni». Altri suoi lavori si trovano al vicino Museo de Antioquia dove la Colombia prima di Colombo è raccontata reperto dopo reperto. Una volta fatto ordine nella linea storica reimmergersi nel caos di Medellín non è impresa semplice. La città travolge, confonde, non lascia margini alla bellezza di facile consumo. Per questo se ne coglie l’intensità sfuggendola. Come? Immergendosi nello straordinario giardino botanico con le sue 600 specie di alberi e piante e l’Orchidearum, un’affascinante architettura di alberi e profumi. Quando non basta, i Paisa prendono il MetroCable e raggiungono il Parque Arví, qui tra sentieri escursionistici, percorsi tra gli alberi, laghi e il meraviglioso mariposario, il recinto delle farfalle, ci si dimentica realmente di tutto. Del passato travagliato, del futuro ottimista ma incerto, della violenza indiscriminata che ha segnato intere generazioni, persino dell’energia che sembra perennemente vibrare intorno ai cittadini di Medellín, anche mentre mangiano. Quell’energia che si osserva al tramonto, da un altro punto dove tutto pare sospeso e lontano, il Cerro Nutibara. Una collina nemmeno troppo alta, ma con la vista ideale sulla città, dove si trova il Pueblito Paisa, una riproduzione un po’ kitsch di un villaggio caratteristico della zona. Da qui si vede tutto o quasi. La ragnatela irregolare di strade e autostrade, le costruzioni mai troppo brutte ma nemmeno troppo belle, i palazzi alveare, i barrio con le loro storie complesse e la musica rap, il verde rosicchiato dall’espansione incontrollata. Un’accozzaglia di energia interrotta da due ragazzini che si rincorrono urlando «Plata o plomo?», «Soldi o piombo?». Ridono, giocano, smitizzano una delle frasi più note e ripetute di quello che fu il re della città. Per fortuna loro, come noi, le hanno sentite solo alla tv.