di Monia Savioli | Fotografie di Graziano Perotti
A 20 anni dalla fine dei bombardamenti, a 10 anni dall’indipendenza, la capitale Pristina è dinamica e ricca di vita, ma piena di contraddizioni
Ad accoglierci, all’uscita dall’aeroporto internazionale di Pristina, c’è una lunga fila di taxi. La corsa verso il centro della città costa mediamente 15 euro. Ma quasi tutti chiedono di più. Bisogna contrattare e insistere. Così il viaggio può avere davvero inizio. L’aria di Pristina accoglie con un leggero pizzicore che invade la gola. Sono le esalazioni della centrale a carbone di Obiliq, di proprietà della Kosovo energy corporation, la società elettrica pubblica kosovara. Produce energia bruciando carbone. La sua ciminiera domina il panorama della città, la coltre di fumo bianco che emette imbratta il cielo. A quasi 20 anni dalla fine dei bombardamenti Nato e a oltre 10 dall’auto proclamazione dell’indipendenza, non ancora riconosciuta dalla totalità degli Stati membri delle Nazioni Unite (ma dall’Italia sì), il territorio del Kosovo è ancora segnato da profonde cicatrici. Scampoli di vecchi edifici danneggiati dai bombardamenti, cimiteri, memoriali che lungo le strade celebrano i tanti eroi di una guerra che ha prodotto vittime e fosse comuni. Dai finestrini del taxi la sequenza di queste immagini è un benvenuto che sa di corso accelerato di storia. E così si arriva a Pristina, la capitale del Kosovo. E della nuova nightlife di tendenza. Il 60 per cento della popolazione kosovara ha meno di 30 anni. Un’eredità della guerra, certo, ma anche della voglia di ricominciare. Quasi tutti i giovani del Kosovo studiano, e hanno un sogno nel cassetto, quello di poter viaggiare liberi, passaporto alla mano. Nel frattempo restano ancorati alla loro terra pur respirando aria europea. Lo fanno nei modi, negli abiti e nei gusti: formalmente musulmani, bevono birra e mojito, in locali alla moda. Pristina ne è piena.
La vita inizia a girare fra le atmosfere soffuse del Soma Book Station sulla via Andrea Gropa, frequentato da una clientela esclusiva e spesso internazionale, e i concerti live organizzati all’Hammam Bar che si trova a pochi passi di distanza, al civico 8 della via Hajdar Dushi, mimetizzato da un parcheggio e da un’entrata accessibile da una scala che scende. Li visitiamo entrambi ed entriamo al Maroon Pub, a pochi passi di distanza in via Fehmi Agani, dove ci accoglie la solitudine di un bancone occupato soltanto dal personale. è ancora presto, nonostante sia un giovedì infrasettimanale. I giovani, in coppia o gruppi, entrano improvvisamente verso la mezzanotte mentre il dj alza il volume per segnalare l’inizio della serata. Usciamo, lasciandoli soli ad assaporare l’entusiasmo della notte. Nënë Tereza, la via principale, dedicata a Santa Madre Teresa di Calcutta – che è nata nella Skopje ottomana, quando faceva parte del Vilayet del Kosovo – ci accoglie con un continuo scorrere di persone. Anche a notte fonda e non solo nei weekend. La sicurezza è garantita dalle forze di polizia, sempre presenti. Due sono le vie, a pochi passi dal corso principale, dedicate alla vita notturna. La Fehmi Agani, sulla quale si concentrano i ristoranti con cucina tipica e internazionale e la Rexhep Luci, lunga e luminosa sfilata di lounge bar e caffetterie. Poi ci sono i locali meno in vista, in zone che difficilmente verrebbe la voglia di esplorare se non dietro suggerimento di amici del posto. Come il Liburnia, che si affaccia sulla Meto Bajraktari, via condivisa con il ristorante di cucina greca El Greco, un viottolo buio conficcato fra abitazioni e spazi aperti, nei pressi della città vecchia.
Qualche anno fa sarebbe stato impensabile considerare il Kosovo e Pristina come una meta turistica. Oggi è la realtà. Su Nënë Tereza si affacciano alberghi e venditori ambulanti di pannocchie di granturco arrostite, fiori, spille e soprammobili per turisti mentre a pochi isolati di distanza il bazar della zona vecchia della città, alle spalle del palazzo del Governo, pullula di spezie e suggestioni. I venditori di uova si confondono con quelli che propongono frutta, verdura, abiti e ancora ninnoli e oggetti per la casa o semplicemente inutili, in un vociare convulso nel quale si fa strada l’eco della preghiera diffusa dai minareti. Lungo le vie il nazionalismo di questo giovane Paese si esprime a suon di bandiere, quella a sfondo blu con il disegno del Kosovo sovrastato dalle sei stelle che corrispondono alle etnie che accoglie, e quella a sfondo rosso, con l’aquila nera a due teste ispirata al sigillo di Gjergj Kastrioti Skënderbeu, Giorgio Castriota Scanderbeg, eroe dell’indipendenza albanese dal giogo Ottomano. La piazza che ne porta il nome, nel cuore moderno di Pristina sul quale si affaccia il palazzo del Governo, accoglie il monumento equestre a lui dedicato e a qualche passo di distanza la statua del padre della Repubblica Kosovara e suo primo presidente, il politico e scrittore Ibrahim Rugova. Sotto i suoi occhi, ogni giorno, Pristina si sveglia caparbia, decisa a procedere sul cammino delle sfide ancora aperte.
La città condensa l’essenza della storia del Kosovo. Le sue tracce iniziano dal boulevard Bill Clinton, dove, a metà circa del percorso, la statua dedicata al Presidente americano ricorda l’inizio dei bombardamenti, avvenuto il 24 marzo del 1999. Più a nord, di fronte al palazzo della Gioventù e dello Sport, in via Luan Haradinaj, quasi nascoste dalle auto che vengono parcheggiate di fronte, si ergono le lettere che compongono la parola “newborn” che dal 17 febbraio 2008 rappresentano il simbolo della nascita del nuovo Kosovo. In occasione di ogni anniversario vengono dipinte in modo diverso. Quest’anno hanno cambiato pelle, trasformandosi nell’inizio di un nuovo capitolo, il “new10rn”. Il Kosovo non dimentica il sacrificio di chi si è immolato per sostenere la sovranità del popolo. Il viso di una donna composto da tanti bottoni di metallo sui quali è incisa la stessa immagine, si erge dall’altra parte della strada. Heroinat è un monumento, suggestivo, che premia l’insieme senza dimenticare il particolare. Lo hanno eretto nel 2015, in onore di tutte le donne che si sono sacrificate durante la guerra.
I particolari fanno la differenza in Kosovo. Per carpirli occorre essere buoni osservatori. Quando un semaforo vira sul rosso, notiamo una scritta: invita a boicottare i prodotti provenienti dalla Serbia. I fantasmi del passato sono ancora lì, pronti a entrare senza chiedere permesso. La chiesa ortodossa di Cristo Salvatore, costruita su un terreno dell’università durante il governo di Milošević e mai finita, resiste agli attacchi del tempo e di quanti hanno cercato di distruggerla. è un fardello che nessuno vuole ma nessuno tocca mentre la croce che la sovrasta brilla più del sole a ricordare, anche da lontano, la sua presenza. A farle compagnia è l’edificio della biblioteca universitaria e nazionale del Kosovo, considerato come uno degli esempi emblematici dell’architettura socialista. Il delicato rapporto fra le religioni si sta lentamente equilibrando. La comunità cattolica nel tempo è divenuta più forte. Il 5 settembre 2017, nel giorno in cui si celebra la memoria liturgica di Santa Madre Teresa, è stata consacrata la cattedrale a lei dedicata, la più grande dei Balcani, progettata dall’architetto Livio Sterlicchio. I lavori sono durati 20 anni, hanno regalato alla città uno degli edifici religiosi più belli. Dal campanile a cui si accede pagando un euro, si può ammirare ogni angolo di Pristina. Le moschee sono concentrate invece lungo via Ylfete Humolli.
Nel percorrerla ci imbattiamo nel Museo Nazionale di Pristina, recentemente ristrutturato. La sezione antica al primo piano conserva testimonianze del passato legato in particolare alla divinità femminile simbolo di fecondità riprodotta in statuette di varie dimensioni, divenuta simbolo della città. La sezione moderna al secondo piano, inaugurata per il decimo anniversario dell’indipendenza, conserva immagini, oggetti e ricordi della guerra del 1999. Cerchiamo un taxi per spingerci oltre la città. I mille volti di Pristina si completano a Gracianica, irriducibile enclave serba che celebra i suoi morti esponendo le foto degli scomparsi sulle lettere monumentali che formano la parola missing/scomparso nella piazza che si apre davanti al centro di cultura. A distanza di pochi metri, il convento ortodosso femminile apre gratuitamente le sue porte a chiunque voglia ammirarne le pitture interne. L’arte, almeno quella, non ha bandiere.