Il Viaggiatore. Il paradiso tropicale di Gauguin

Allontanatosi dall’Europa il pittore francese Paul Gauguin cercò rifugio alle isole Marchesi, in cerca di bellezza e di ispirazione. E creando un mito.

 

«Sono a terra, vinto dalla miseria e soprattutto dalla malattia, sono invecchiato prematuramente. Non oso sperare di avere una tregua per finire la mia opera. In ogni caso faccio un ultimo sforzo andando il mese prossimo a installarmi a Hiva-Oa, una delle isole Marchesi quasi ancora antropofaga. Credo che questo elemento estremamente selvaggio, questa solitudine completa mi darà prima di morire un’ultima fiammata d’entusiasmo che ringiovanirà la mia immaginazione», scriveva nel 1901 il pittore francese Paul Gauguin.

Era da molti anni che quello che si definiva ironicamente un «vecchio gallo arrogante, dalla pellaccia dura e dalla voce piuttosto arrochita» cercava l’ispirazione nei luoghi meno inquinati dalla civiltà europea. Dopo un lungo soggiorno alle Hawaii, si era spostato in quell’isola dove le donne fumavano la pipa e avevano «lo sguardo vellutato e sorpreso di un cerbiatto». Lì era possibile «vivere come un piccolo Sardanapalo senza andare in rovina». I coloni guardavano stupiti il suo eccentrico abbigliamento: una lunga redingote blu coi bottoni di madreperla, un gilet giallo e verde, pantaloni color mastice e un largo feltro grigio. Ma si scandalizzavano del bastone da passeggio a forma di fallo che si era scolpito. Il pittore era soddisfatto del grande atelier, oggi ricostruito e visitabile, dove lavorava e dormiva. Tutto quello che aveva, dagli album di schizzi alle foto pornografiche, era ordinatamente disposto su delle mensole. Sopra l’ingresso campeggiava una scritta, “Casa del piacere”, un’eco di quella dell’atelier di Parigi: “Qui si fa all’amore”. Ai lati c’erano due bassorilievi di nudi femminili e di fiori e frutti accompagnati dalle scritte: “Siate innamorate, sarete felici” e “Siate misteriose e sarete felici”. Aveva un’amaca per riposare all’ombra e la brezza di un gruppo di alberi di cocco per rinfrescarlo.

Era riuscito come sperava a trovare delle modelle. Le indigene avevano una grazia naturale e un’inconsapevole maestà. Due minorenni, prima Marie-Rosé e poi Thérèse, si erano avvicendate al suo fianco dandogli dei figli. Dopo un anno di pace quel semplice paradiso era stato incrinato dai ripetuti scontri di Gauguin con l’amministrazione francese. Gli sembrava che il colonialismo stesse snaturando quelle oasi. Ed era contrario sia allo sfruttamento sia alla scolarizzazione, che a suo avviso corrompeva i giovani e li allontanava dalla natura come racconta in Prima e dopo, volume di memorie dai mari del Sud edito in Italia da Castelvecchi. Ma il male peggiore era un violento eczema, a lungo scambiato per sifilide, che spesso lo costringeva a letto. Per arginare il dolore usava l’alcool e la droga. Nelle rare uscite aveva adottato la tenuta locale, un pareo colorato e una lieve camiciola tahitiana. Ai saltuari visitatori non parlava mai della sua famiglia che aveva abbandonato da tempo, ma solamente di arte. Negli ultimi giorni, nel 1903, gli indigeni che tanto aveva amato e difeso sembravano averlo abbandonato, ma alla notizia della sua morte avevano cominciato a gridare: «Gauguin è morto, siamo perduti!».