di Mario Tozzi
L’Italia cementifica consumando il suolo a un ritmo forsennato. Quali sono i rischi evidenti e come si può invertire questa tendenza?
Tra i due e gli otto metri quadrati ogni secondo che passa (a seconda del periodo), questa è la vera emergenza ambientale italiana, che pesa più dell’inquinamento, più dell’amianto e del traffico. Una spaventosa quantità di territorio vergine che viene ricoperto da asfalto e cemento e perduta per sempre. Negli ultimi cinquant’anni il nostro territorio è stato consumato a un ritmo di novanta ettari al giorno di conversione urbana. Se questa spirale non verrà interrotta, nei prossimi venti anni quasi 700mila ettari saranno perduti (quanto il Friuli-Venezia Giulia). L’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, certifica che il territorio ricoperto dal cemento in Italia dal secondo dopoguerra è quadruplicato ed è arrivato al 7,5 per cento, contribuendo a rendere più precario l’equilibrio idrogeologico, dissipando le nostre risorse naturali e amplificando i fenomeni estremi causati dai cambiamenti climatici. è un fenomeno che ha già trasformato la memoria storica e l’identità del nostro Paese, mentre in Europa si va nella direzione contraria: in Germania si è arrivati a 43-44mila ettari all’anno, un sesto appena dei nostri consumi più recenti. In Gran Bretagna l’allarme per l’erosione dei suoli liberi e/o agricoli lanciato negli anni Trenta si concretizzò con la realizzazione delle green belts (le cinture verdi urbane). In questo modo i 25mila ettari consumati in dodici mesi negli anni Trenta sono scesi a 8mila.
Invece in Italia siamo arrivati allo svuotamento di molti centri storici e all’aumento di residenti in nuovi spazi e nuove attività, che significano a loro volta nuove domande di servizi e così via all’infinito. Dando vita a una città continua, da Torino a Venezia. Con effetti alla lunga devastanti. Dove esistevano paesi e identità municipali oggi troviamo immense periferie urbane, quartieri dormitorio e senza anima: una conurbazione micidiale. In molti casi le nuove costruzioni hanno impegnato aree che dovevano essere lasciate libere perché a rischio naturale elevato, come è il caso delle abitazioni abusive costruite alle pendici del Vesuvio, nella zona rossa di Sarno, lungo le coste a rischio e ovunque ci siano vecchie frane o corsi fluviali che possono esondare. Ma perché gli italiani costruiscono così tanto e, se il fenomeno è così grave per l’ambiente, il rischio idrogeologico, il paesaggio e la memoria collettiva, come si dovrebbe agire per limitare i danni? Legare i movimenti economici all’edilizia è un vizio tutto italiano che non ha ragione di esistere in un Paese già gravemente ingombro di costruzioni come il nostro. Un popolo di muratori che dimentica il valore del paesaggio, vera ricchezza del Paese, devastato dagli insediamenti in cambio di enormi periferie di una bruttezza disarmante con milioni di vani che restano invenduti. E la proposta di legge del Parlamento italiano per raggiungere entro il 2050 l’obiettivo europeo di consumo di suolo zero è andata perduta nella scorsa legislatura. Basterebbe reiterarla e approvarla.