di Tino Mantarro
La ricetta danese per vivere sereni si chiama hygge: un’atmosfera di calore e convivialità che permea la vita quotidiana. Siamo andati a Odense, sull’isola di Fyn, per vedere come si vive nel Paese della felicità
C’è chi è matto come un cavallo, e chi è felice come un danese. Il primo è un modo di dire vecchio di secoli, il secondo lo diventerà. Non che le due cose siano correlate, per carità, ma quando si passa qualche tempo in Danimarca ci si accorge ben presto di una cosa e non è il fatto – evidente – che sono tutti alti, biondi e usano la bici. Piuttosto ci si rende conto che i danesi prendono la vita con rilassatezza: camminano piano, danno l’idea di essere più che soddisfatti e di sapersi godere le piccole gioie della vita. Si potrebbe quasi affermare che sono sempre sorridenti, se questo non stridesse maledettamente con l’idea preconcetta – e ormai logora – che abbiamo da sempre: ovvero che i danesi, e in generale gli scandinavi, sono persone tristi. Cosicché quando si accenna alla bellezza e alla facilità del vivere nel Nord Europa c’è sempre qualcuno che salta fuori a parlare degli inverni lunghi e bui e dell’alto tasso di suicidi. «Però è uno stereotipo datato: negli anni Ottanta poteva essere vero, le statistiche registravano 40 suicidi ogni 100mila abitanti. Ma oggi è più basso della media mondiale», spiega Meik Wiking, fondatore dell’Happiness Research Institute. Al contrario, la Danimarca è stabile sul podio dell’annuale classifica dei Paesi più felici del mondo. Il World Happiness Report pubblicato dalle Nazioni Unite infatti nel 2018 la vede terza, dietro Finlandia e Norvegia, l’Italia è 46esima. Merito, pare, di un modo di prendere la vita assai peculiare dei danesi che va sotto il nome di hygge. Una di quelle parole intraducibili che rendono bene l’essenza, forse l’anima stessa, di un popolo, come la saudade per i portoghesi.
Ma che cosa è l’hygge? «È l’esperienza, in determinate condizioni fisiche e sociali, di un immediato senso di piacere. Un’atmosfera autentica e spontanea di benessere che si ripercuote nelle relazioni con gli altri e con se stessi, ed è dovuta a oggetti e situazioni che sono immediatamente accessibili nella vita quotidiana», spiega l’antropologo Jeppe Trolle Linnet. «Ha a che fare con le piccole cose, la semplicità e i piaceri dell’esistenza: è un sentimento, ma anche una pratica quotidiana» aggiunge Wiking. Pratica che si traduce in un tripudio di candele accese sui tavoli e biscotti alla cannella in forno; pupazzetti, ninnoli e fiori alle finestre; lampade e luci basse che scaldano l’atmosfera, coperte sul divano e un circolo di amici con cui sorseggiare grog (vin brulé) davanti al camino all’interno di abitazioni minimaliste ma ricercate, come prescrive il design scandinavo. Perché vivere in un ambiente confortevole e bello, meglio se arredato con materiali naturali, è uno dei precetti non scritti dell’hygge. Un immaginario che fa molto catalogo Ikea, ma in realtà è parte integrante della vita quotidiana danese.
L’hygge rappresenta una specie di quintessenza dell’essere danesi, talmente connaturato al bagaglio culturale della Danimarca che tre anni fa è nata l’idea di candidarlo come Patrimonio immateriale dell’Umanità Unesco, al pari della dieta mediterranea e dell’arte dei pizzaioli napoletani. Del resto l’hygge è un po’ una dieta mediterranea dell’anima, non tiene a bada il colesterolo, ma la tristezza. Questo perché «l’essenza dell’hygge è la ricerca della felicità: è come un abbraccio, ma senza contatto fisico» spiega Viking. Una filosofia di vita personale che però si riflette sull’intera vita sociale. Lo si coglie bene camminando per le strade di Odense, sull’isola di Fyn, a un’ora di treno da Copenaghen. Da sempre associata al mito di Hans Christian Andersen e delle sue fiabe, la città al momento è sottosopra perché stanno ultimando i lavori di una decisa ristrutturazione urbanistica del centro. Ovviamente si tratta di un progetto in linea con la filosofia hygge applicata all’idea di città vivibile: per cui è stata chiusa una strada a grande percorrenza che tagliava in due il centro per creare una zona pedonale e residenziale che farà da corona al nuovo museo Andersen, una specie di giardino delle meraviglie che si inaugurerà nel 2020. Eppure, nonostante i lavori ciclopici, l’aria che si respira in città è di estrema rilassatezza. Saranno le biciclette che scorrazzano ovunque, saranno le case basse che sembrano di marzapane, gli ampi spazi verdi ben tenuti, sarà che nei bar vedi sempre qualcuno che sorseggia un caffè o legge un libro, però si percepisce qualcosa di lieve, quasi allegro, nella rigida vita danese. Eppure chi l’ha frequentata per scrivere la guida Verde Touring degli anni Ottanta racconta di un Paese austero ai limiti della severità, dove era difficile trovare un ristorante per cenare dopo le 20.
Ora le cose sono cambiate. «Oggi, specie tra i giovani, c’è molta più convivialità. Si sta più a lungo fuori e si mangia spesso al ristorante non solo nella bella stagione» spiega Søren Brønserud, del locale ufficio turistico. «Di recente hanno aperto due Food Market dove si può assaggiare street food internazionale e sono pieni a qualsiasi ora» racconta. In effetti in un grigio pomeriggio che prelude all’inverno i tremila metri quadrati dello Storms Pakhus, ex magazzino industriale nella zona portuale da poco riconvertita, sono pieni di gente che sorseggia caffè e prova sandwich a base di anatra arrosto, tutto a prezzi accessibili anche per i nostri standard. «È come se negli anni i danesi avessero maturato un diritto alla decompressione, allo stare insieme, o soli, in modo semplice e piacevole» spiega Sergio Ivanoff, imprenditore italoargentino da 30 anni trasferito a Odense. Certo, aiuta non poco il fatto che – cascasse il mondo – intorno alle 16 la maggioranza delle persone finisce di lavorare. «Qui sono grandi lavoratori, tutti a testa bassa dalle 8 alle 16, con mezz’ora di pausa, ma finito il tempo del lavoro, c’è quello del relax, il momento per se stessi e per la famiglia. Ed è sacro» prosegue.
È indubbio che questa ricerca di calore – fisico e umano – abbia molto a che fare con il clima. «Fuori l’inverno è inospitale, buio, grigio e fangoso, così dentro casa si cerca di ricreare un nido accogliente e semplice» prosegue Sergio. Ma viene il sospetto che potersi concedere questo lusso abbia in qualche modo a che fare con il famoso stato sociale scandinavo, lo Stato che pensa al cittadino e lo mette nella condizione di vivere al meglio la vita. «C’entra, ma non è solo quello – spiega Linnet –. È piuttosto una combinazione di diversi elementi che partono dal clima di queste latitudini; da un certa quieta, romantica malinconia tipica della mentalità nordica; dal nostro welfare state avanzato; dal fatto di essere protestanti e di vivere in un Paese piccolo e ricco». Esser benestanti dunque è condizione necessaria ma non sufficiente. «I danesi sono un popolo felice, non solo perché sono ricchi, ma perché stanno bene» assicura Sergio. E stanno bene perché abbracciano l’hygge. Le due cose, ricchezza e felicità, vanno a braccetto, e anzi, sembrano contribuire a sviluppare una specie di circolo virtuoso che crea benessere diffuso in un Paese con la disoccupazione al 4,9 per cento e un reddito procapite che sfiora i 50mila euro. Circolo virtuoso che alimenta ogni settore. «Ora che tutti ne parlano, in tanti vengono in Danimarca mossi dalla curiosità di vedere come si vive nel Paese più felice del mondo. Il che è strano, perché per noi è qualcosa di interiorizzato, di normale. Eppure ora è diventato qualcosa di cui anche noi parliamo: diciamo che l’abbiamo razionalizzato e gli abbiamo dato una forma» dice Brønserud.
Così, complice la fascinazione per tutto quello che viene dal Nord Europa, l’hygge è diventato moda globale, come testimonia il profluvio di pubblicazioni che spiegano come replicare il modello danese. Non solo, oltre a portar più turisti in Danimarca, il suo successo è servito da traino per il brand Denmark in ogni campo: dall’architettura alla moda, dalla cucina al design. «Non ci sono dati, perché non è quantificabile, ma è servito a far crescere la percezione della Danimarca e dei prodotti danesi in modo positivo». Così se il nostro è il Paese del sole, la Danimarca sembra esser diventato il Paese della tranquilla felicità. Dovevo averlo intuito da piccolo, quando coltivavo una passione per la Danimarca. Non ho mai appurato se fosse per via dei Lego; o di Preben Elkjær, attaccante del Verona che quando avevo 8 anni realizzò un gran gol percorrendo metà campo con una sola scarpa e tirando con il piede scalzo. Fatto è che ne ero davvero innamorato pur senza esserci andato. Ora ho capito perché.