di Giuseppe Scaraffia | Foto Archivio Tci
Mondano e capriccioso, nel 1895 Gabriele d'Annunzio visitò la Penisola ellenica e Atene, ma pianse di gioia sull’Acropoli
I compagni di viaggio di Gabriele d’Annunzio guardarono stupiti i bauli del poeta. Dentro, ben piegati, c’erano un «abito grigio ferro, abito a quadretti bianchi e neri, abito marrone con tàit (il tight), chemise marron chiaro, tre completi in flanella bianca, tàit nero, pantaloni chiari, smoking, sei gilet bianchi». Per non parlare delle quaranta camicie e delle svariate paia di scarpe con le ghette abbinate e dei volumi dei classici greci. Quel trentenne non voleva scoprire quell’antica terra, ma ritrovare gli sfondi delle sue letture. «Io conoscevo la Grecia prima di toccare le colonne del Partenone». Fantasia, il panfilo di un grande giornalista, il suo amico Edoardo Scarfoglio, era un elegante due alberi di una novantina di tonnellate con un equipaggio di nove marinai e un cuoco. Si erano imbarcati a Gallipoli alla fine del luglio 1895 e subito lo scrittore aveva cominciato a lamentarsi dell’afa, delle mosche e del cibo deludente. Dopo pochi giorni, esaurito il sollievo di essersi liberato di un’amante invadente, aveva iniziato a sentire la mancanza di presenze femminili e aveva spinto gli altri a deludenti ricerche di prostitute nei villaggi greci. A tratti l’estate sembrava avere il sopravvento sul glorioso passato della Grecia. «A Olimpia, a Delfo, a Micene, a Tirinto abbiamo trovato il deserto ardente e qualche gran cimitero di pietre morte». Ma non c’erano soltanto i disagi del viaggio. Come gli eroi dell’antichità, aveva fatto il bagno nudo nel leggendario fiume Alfeo. Davanti all’Ermete di Prassitele era stato sopraffatto dall’emozione e si era inginocchiato.
Aveva trovato Itaca, «petrosa, macchiata qua e là da oliveti pallidi, quasi deserta», molto simile a quella dell’Odissea: «Grandi fantasmi omerici si levano da ogni parte». A Micene aveva ripassato Sofocle ed Eschilo sotto la Porta dei Leoni, pensando al dramma che stava preparando, La città morta. Nei giorni che precedettero il suo arrivo ad Atene sembrava tormentato solo dalla mancanza del cilindro, indispensabile per la vita mondana in cui sperava. Invece la città era quasi deserta e fu il Partenone a dargli il turbamento più grande. «Scorgendo le colonne del Partenone su l’Acropoli, ho pianto di gioia e di dolore. Ier l’altro, salendo per i Propilei, ho sentito diffondersi per tutto il mio essere una calma quasi ambrosia». Nel Museo dell’Acropoli, lo scrittore aveva indugiato sui «bassorilievi della balaustra del tempio della Nike Apteros. Vittorie alate che conducono al sacrificio di un toro […] e portano il toro sacro. Le pieghe sono più folte e più mosse, nell’atto violento poiché il toro balza. I corpi sono agili, alti, snelli, alacri. Creature vibranti e veloci». La capitale greca poteva pure essere solo una città «bianca e polverosa, alquanto provinciale», ma quegli «avanzi antichi» tra l’erba bruciata dal sole lo ricompensavano ampiamente. Molti anni dopo, ripensando a quei viaggi, gli tornò in mente «la corsa ansiosa per giungere in cima all’Acropoli prima che sparisca l’ultimo raggio del tramonto».