di Fabrizio Ravelli | Fotografie di Flavio Pettene
Sulle Prealpi veronesi si apre un mondo antico, fatto di pascoli e malghe, faggete e grotte.
Una montagna che da 29 anni si racconta a teatro, attraverso le parole e i volti dell’intera comunità
C’è una montagna magica da scoprire: trovarla è facile perché è vicina, capirla richiede un certo sforzo che può insegnare parecchio sul nostro tempo. La Lessinia è un mondo antico a portata di mano: una trentina di chilometri salendo da Verona, dalla piana dell’Adige attraversando gli uliveti per arrivare ai pascoli. Un viaggio breve, perfino troppo breve. Si fatica a percepire il cambiamento, una volta arrivati su, anche perché la quota non è così alta: dai mille ai millecinquecento metri, più o meno. Ma è un altro mondo, così diverso da quello ci si è lasciati alle spalle meno di un’ora prima. Pascoli verdissimi, boschi di faggi, malghe, contrade in pietra rosa, grotte e rocce affioranti. Una montagna domestica ma non addomesticata, che accetta di essere conosciuta ed esplorata rifiutando la colonizzazione, lo stravolgimento, accogliente ma orgogliosa.
Questa è la terra dei Cimbri, i montanari bavaresi che nel 1287 vennero chiamati dal vescovo a disboscare e produrre carbone, la “montagna del carbòn”. Boscaioli e carbonai ripopolarono queste valli, e nacque la Comunità dei 13 Comuni, con sede a Velo Veronese. Ed è proprio a Velo che, nel 1990, prende vita un’esperienza unica di teatro sociale creata da Alessandro Anderloni.
Un ragazzo allora neolaureato in lettere fermamente deciso a non lasciare la sua montagna, a coltivare e diffondere il ricordo, la memoria e la lingua di questi posti. La compagnia Le Falìe, che coinvolge nei vari ruoli centinaia di abitanti di Velo, comincia a mettere in scena spettacoli che rievocano momenti salienti della storia locale. Anderloni è partito dalle interviste ai vecchi, che raccontano i fatti che hanno segnato la loro esistenza. Il primo spettacolo è del 1993, La Madona l'à portà la luce, che racconta il passaggio della Madonna Pellegrina nel 1950. Alessandro scrive i testi, compone le musiche, dirige e mette in scena. Gli attori, non professionisti, sono abitanti di Velo e recitano in dialetto.
Da lì in avanti, sono stati più di venti gli spettacoli della compagnia, e hanno navigato lungo decenni di storia locale: le guerre, la Resistenza, il fascismo, le favole e i miti. Niente di nostalgico e pittoresco, molto senso dell’umorismo, la scoperta di assoluti talenti naturali nella recitazione, che fossero bambini, vecchie signore, forestali, operai, contadini. L’ultima messa in scena è Lùssia, una notte di Santa Lucia ambientata nel 1960 quando l’arrivo della televisione portò scompiglio nelle case. Nel frattempo, in questi 25 anni, Anderloni ha creato cori di adulti e bambini, realizzato musiche con il compositore Bepi De Marzi, girato film, allestito laboratori nelle scuole e nelle carceri, creato e diretto il Film Festival della Lessinia, un concorso internazionale dedicato alla vita e alle tradizioni della montagna. Velo, un paese di nemmeno mille abitanti, è diventato il centro di un’operazione culturale di grande respiro.
Un lavoro che spiega bene perché questa Lessinia è un posto particolare, di gente che non solo non se ne vuole più andare come i molti emigranti della sua storia povera, ma rivendica l’orgoglio della propria identità. «Questa è una terra che non si vergogna di essere contadina – dice Anderloni –. Che resiste ai cambiamenti artificiosi e dirompenti, ma nello stesso tempo pratica un’accoglienza turistica lenta, attenta alla natura e al lavoro dell’uomo, curiosa della Storia e della sua tradizione. Portiamo in scena noi stessi e il nostro mondo senza che diventi folclore, recitiamo per bisogno di raccontare, per orgoglio nostro di montanari. Questo ci rende felici di vivere qui, e dà un senso al reinventare la vita in montagna. Il teatro – prosegue – è la nostra stalla». Perché il raccontare era una volta gran parte della vita sociale, nelle sere in cui la gente si radunava in una stalla – il posto più caldo della casa – per i filò, lo scambio di racconti e favole.
E delle avventure di fate, orchi e streghe sono affollati i luoghi di queste montagne. Come la grotta del Còvolo, che la leggenda vuole abbia ispirato a Dante l’ingresso nell’Inferno, grotta di fate (fade, in dialetto) che stendevano un gomitolo senza fine fra le rocce ed erano buone, finché una di loro venne presa e spogliata e divennero ostili e capaci di terribili dispetti. O la Valle delle Sfingi, dove dai prati verdi si alzano bizzarre rocce dall’aria di misteriosi monumenti. O il Ponte di Veja, arco naturale che sovrasta un torrente.
Ma non sono soltanto le leggende a rendere affascinante la Lessinia. Molte tracce preistoriche, pitture rupestri e ritrovamenti raccontano la presenza dell’uomo in queste terre.
A Camposilvano, il Museo paleontologico raccoglie reperti di enorme interesse, per lo più scovati dall’opera di Attilio Benetti. Ammoniti che risalgono a 180 milioni di anni fa, ossa di un orso delle caverne (risalenti a 30mila anni) ritrovate nel Còvolo.
Il Parco naturale regionale della Lessinia – 10mila ettari di pascoli e foreste – è un posto meraviglioso da esplorare, e questa è una montagna da scoprire a piedi. Lungo i sentieri si incontrano malghe in pietra dove si producono formaggi tipici (e dove spesso ci si può rifocillare), croci scolpite dalla devozione di artisti contadini, contrade come quella di Campe dove vive “la Gabri”, tostissima signora ultraottantenne che è anche meravigliosa attrice delle Falìe, o greggi di pecore di razza autoctona Brogna come quello che Lorenzo pascola col figlio Martin. Troverete faggi millenari, attraverserete il Prato di Bertoldo da cui il furbo contadino scese fino alla corte di re Alboino, o vedrete la Giazzara, la grotta scavata per conservare il ghiaccio. E questa montagna lenta, silenziosa e domestica, non vi abbandonerà più.