Fotocronache sovietiche

Máša IvašincováMáša IvašincováMáša Ivašincová

L’archivio segreto di Máša Ivašincová, fotografa russa che, in migliaia di scatti ora tornati alla luce, ha immortalato la quotidianità di San Pietroburgo sotto il regime

 l caffè Saigon era un locale alternativo di Leningrado – come un tempo si chiamava San Pietroburgo – che deve il nome allo sfogo di un poliziotto: «Ma che razza di Saigon avete tirato insieme!». Il poliziotto ce l’aveva con un gruppo di ragazze che fumavano nonostante il divieto. Il Saigon era il covo degli scapigliati sovietici. Alla mattina cercavano di rimettersi in sesto dalla sbornia bevendo espresso fatto con macchine ungheresi e più avanti nella giornata ci davano di superalcolici. La bohème sovietica è fiorita tra il disgelo post-staliniano e la perestrojka. Gli artisti cresciuti in quel periodo sono scrittori come il premio Nobel Josif Brods­kij, autore di Fondamenta degli incurabili il più bel libro su Venezia, e quel pazzoide geniale di Sergej Dovlatov, per fare un paio di nomi noti fuori dai confini, ovvero oltre la Cortina di ferro. Ci sono poi stelle della musica tuttora venerate come Vladimir Vysockij e Viktor Coj – morto in un incidente d’auto alla James Dean –, cantanti ma anche attori. Qualcuno, come l’autrice degli scatti di queste pagine la fotografa Máša Ivašincová (il cui nome spesso è traslitterato all’inglese, Masha Ivashintsova), emerge solo ora dai fondali del tempo.

Ho letto per la prima volta la sua storia in un libro molto vasto e ricco – anche di immagini – oltre che bello: C’era una volta l’Urss: 70 anni di cultura sovietica (edito da Raffaello Cortina). L’autore è Gian Piero Piretto, a lungo docente di storia della cultura russa alla statale di Milano. Questo titolo è un po’ la sua summa sovietologica. Nel 2012 ha firmato un volume delizioso e prezioso come La vita privata degli oggetti sovietici. L’homo sovieticus raccontato dalla prospettiva dell’esistenza materiale: l’alto attraverso il basso. La cultura che più mi ha appassionato in C’era una volta l’Urss è la controcultura. Cioè tutto quello che è emerso in alternativa all’arte di regime. Máša Ivašincová si spinge oltre. Rappresenta il lato sommerso della cultura non ufficiale, una controstoria dentro la controstoria, l’underground dell’underground. Difatti non ha mai mostrato le sue foto in famiglia o nel giro intellettuale che frequentava e neanche quello che scriveva nel diario: «Ho amato senza memoria: non è un’epigrafe per il libro che non esiste? Non ho mai avuto memoria per me, ma sempre e solo per gli altri»

La figlia Asja ha trovato migliaia di scatti mentre sistemava l’appartamento dove vive col marito nel quartiere Puškin di San Pietroburgo. Frequentatrice del caffè Saigon, Máša Ivašincová non ha avuto una vita facile. Ha avuto «tre uomini intorno al cor»: il poeta Viktor Krivulin, il fotografo Boris Smelov e il linguista di origine armena Melvar Melkumjan, che ha sposato e le ha dato Asja. Smelov è stato un grande cantore di San Pietroburgo e ha regalato a Máša una Leica. Se non c’era più la Siberia all’orizzonte degli irregolari sovietici, convivere con il regime non era facile. Non si veniva più condannati per il famigerato articolo 58, che puniva i criminali politici, ma per altri reati come il “parassitismo”. Il sistema sovietico dava a tutti la possibilità di sopravvivere, ma se non eri artista col tesserino dovevi fare un lavoro qualunque per non finire davanti all’alternativa: galera o manicomio. La terza via era l’esilio, come per Brods­kij e Dovlatov. Viktor Coj, per dire, come altri artisti di quel periodo, si è reinventato fuochista, cioè l’addetto alle caldaie di un dormitorio femminile. Quel locale caldaie, il Kamčatka, in via Blochina 15, è ora un club, e un museo del cantante. Máša Ivašincová invece è finita in manicomio. Muore nel 2000 – ben dopo la fine dell’Urss – tra le braccia della figlia per un cancro. Aveva 58 anni.

Ora dalla polvere dov’era relegato sta emergendo un imponente archivio segreto che la pone accanto a Vivian Maier, la governante di bambini che per tutta la vita ha scattato camminando per le vie di Chicago e New York, pioniera della street-photography. Il sapore degli scatti della Ivašincová, ovvio, è del tutto diverso – Usa e Urss erano due pianeti contrapposti – e ha un retrogusto politico e storico più forte, anche senza volerlo. Ci sono ombre nere che spalano la neve in un’alba livida vicino a una statua d’epoca zarista, che sembra sorvegliarli, le braccia al sen conserte; una statua di Stalin buttata a terra, cava e senza testa; cani in riva alla Neva sullo sfondo di palazzoni moderni. E un parco giochi deserto con scivolo pateticamente ispirato alle conquiste sovietiche del cosmo. La maggior parte delle fotografie sembrano concentrate negli anni ‘70, ma una buona parte dell’archivio è inedito e ancora da riportare alla luce. Bellissimi i ritratti della gente comune, bambini e adulti che ci guardano attraverso il tempo, tra il colbacco e gli occhiali rotti, sempre nel classico bianco e nero di un passato non troppo lontano. Sembrano dirci che l’Unione Sovietica non è stata solo guerra fredda, cremlinologia, nomenklatura e conquiste spaziali. Ma anche e soprattutto un luogo e un’epoca in cui milioni di individui hanno amato, sofferto, gioito, creato e distrutto, cioè vissuto. Tra i ritratti degli uomini della Ivašincová colpisce la faccia incredibile del marito, il linguista armeno Melkumjan. Tra i personaggi il poeta Arsenij Tarkovskij, padre di Andrej, il regista: «... perché la debolezza è la forza e la forza è niente», scrive in un suo verso. La controstoria nella controstoria della Vivian Maier sovietica – anzi russa, diciamo pure – è una meravigliosa dimostrazione di forza della fragilità dell’esistenza umana e della memoria.

Fotografie di Máša Ivašincová