La storia di Orte? È tutta un film

Il borgo del Viterbese punta tutto su archeologia e cultura. E riscopre anche il suo cittadino più illustre, quel Filoteo Alberini, pioniere italiano del cinema che 125 anni fa inventò il kinetografo. Forse anticipando i fratelli Lumière

 

C’è qualcuno che si erge fra i tetti di Orte, immobile e immutabile come un monolite. Ma quando la valle del Tevere si inonda di luce, quella figura prende vita e il suo racconto diventa carne. È lui, Filoteo Alberini, il cittadino più celebre del borgo in provincia di Viterbo, cui è dedicata l’opera d’arte di acciaio corten, realizzata alla fine del 2017 da Roberto Joppolo: un insieme di forme sovrapposte fra loro, dal regista all’attore, dalla cinepresa alla pellicola, in ricordo di questo pioniere che ha girato e prodotto il primo film del nostro Paese e che ha forse inventato il cinema. Fu Alberini, infatti, a realizzare 125 anni fa il kinetografo, “apparecchio di presa di vedute e di proiezione animata” in grado di imprimere su pellicola sedici fotogrammi al secondo e di proiettare le riprese per un pubblico potenzialmente illimitato.

In pratica, quella meravigliosa “trovata” che porta la firma di due francesi, i monumentali fratelli Auguste e Louis Lumière. Ma Filoteo – come accade in tutte le invenzioni, spesso frutto della sintesi di più contributi – diede un aiuto fondamentale alla nascita di quella che qualche anno dopo sempre un italiano, il poeta siciliano Ricciotto Canudo, definì la “settima arte”. Eppure pochi conoscono Filoteo Alberini. Anche Orte, del resto, è per la maggior parte degli italiani solo il nome di uno svincolo sull’autostrada del Sole; pochi conoscono la sua ultra millenaria storia che comincia con gli Etruschi di Volsinii (Orvieto) a controllo della media valle del Tevere, pochi si spingono ad ammirare la sorprendente rupe di tufo dove il borgo si erge con le abitazioni più antiche ricavate nella roccia.

Per questo, l’amministrazione comunale sta cercando di far conoscere l’antica cittadella con progetti turistici e manifestazioni culturali in cui la parte principale è riservata ad Alberini, in precedenza ricordato solo dalla lapide sulla casa dove nacque nel 1867: oltre al monumento, gli è stato dedicato il Festival del cortometraggio che da alcuni anni premia registi e attori e che nell’edizione 2019, prevista a ottobre, comprenderà anche giornate di approfondimento sul cinema e sulla sua figura; in suo onore, inoltre, il cine-teatro Alberini, che ricorda tanto il Nuovo Cinema Paradiso del regista premio Oscar Giuseppe Tornatore, entro l’anno sarà trasformato in una sala polifunzionale per ospitare iniziative culturali legate all’arte e alle tradizioni della comunità ortana.

 

Ma come andarono veramente i fatti? «Come lo stesso Alberini raccontò nel 1923 in un’intervista a La Tribuna – spiega Antonio Pantaleone, ideatore e direttore artistico del festival – una volta perfezionato il suo kinetografo, alla fine del 1894 presentò la richiesta per ottenere l’attestato di Privativa Industriale (così si chiamava ai tempi il brevetto)» e subito dopo, con le sudate carte, partì per incontrare a Lione i due Lumière, ideatori in quel periodo del procedimento della lastra secca, preludio alla pellicola cinematografica. «Non si sa bene – continua Pantaleone – come andò quell’incontro, sta di fatto che dopo alcuni mesi i due fratelli brevettarono uno strumento simile e alla fine del dicembre 1895 inaugurarono a Parigi la prima proiezione cinematografica pubblica a pagamento, L’arrivée d’un train, nel Grand Cafè di boulevard de Capucines.

Pochi giorni dopo, Alberini ricevette dal Ministero dell’industria l’agognato brevetto il cui iter durato un anno aveva avuto intoppi burocratici». Sì, avete letto bene. Come racconta il libro Filoteo Alberini, l’inventore del cinema (di Giovanna Lombardi, Edizioni Arduino Sacco), il nostro inventore potrebbe essere stato bruciato sui tempi dai Lumière per colpa della burocrazia, già all’epoca elefantiaca. «Se non possiamo dimostrare, per mancanza di prove, che Alberini è stato il primo inventore della cinematografia – precisa il sindaco di Orte, Angelo Giuliani – sappiamo però che è stato il primo produttore di film d’Italia: dopo aver aperto una sala cinema a Firenze (la prima in Italia), ne inaugura una seconda a Roma, il Moderno in piazza della Repubblica (primo cinema della capitale) poi una a Palermo e una a Napoli. Fonda una casa di produzione nella capitale, il “Primo Stabilimento Italiano di Manifattura Cinematografica Alberini e Santoni“ (anche quest’ultimo cittadino di Orte) che nel 1906 cambierà nome in Cines, la mamma di Cinecittà». Filoteo va avanti come un treno e, mentre i Lumière passano ad altro perché ritengono la cinematografia un’invenzione senza futuro, realizza nel 1905 il primo lungometraggio, La Presa di Roma, ora restaurato e conservato nella Cineteca nazionale, dando così inizio alla storia del cinema italiano, producendo oltre cento film, tra cui nel 1913 il primo kolossal mondiale, Quo Vadis, con la regia di Enrico Guazzoni.

 

La biografia di Alberini è sorprendente e contribuisce a dare forza e visione a Orte, che conta meno di 9mila abitanti, ma ha tutti i numeri di una piccola capitale d’arte: altro che paese disteso come un vecchio addormentato, di cui questa parte d’Italia abbonda. A fare la differenza sono l’amministrazione comunale – una squadra di giovani ­appassionati – e la sinergia non scontata tra l’università della Tuscia e la Soprintendenza archeologica per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale, che riesce a rendere fruibile la sua ricerca sul territorio. I tre musei del borgo – Civico archeologico, d’Arte sacra e delle Confraternite – raccontano con chiarezza il passaggio di Etruschi, Romani, Bizantini, Longobardi e Arabi, che qui si alternarono, contendendosi il controllo delle strategiche vie di comunicazione; suggestive visite guidate permettono l’esplorazione nella rupe tufacea in cui vive la città sotterranea; eventi studiati e coordinati dall’ente Ottava Medievale – impegnato in attività culturali che fanno leva su una biblioteca specializzata in medioevo e rinascimento – fanno rivivere più volte l’anno le sette storiche contrade con i gruppi degli sbandieratori e degli arcieri storici e l’accademia dei Signori disuniti. E ora anche l’area archeologica di Seripola, sede di un importante porto romano sul Tevere, in uso tra il III a.C. e il XII sec. d.C. è stata riaperta al pubblico, dopo l’alluvione del 2012. Con tour mirati si può passeggiare tra le botteghe, i magazzini e le terme dell’antico porto, affacciarsi sul mitico fiume, che ancora ne lambisce i resti monumentali e che in un breve tratto si può risalire in canoa.

Pagaiando a destra e a sinistra – con lo sguardo rivolto al viadotto dell’autostrada che lo sovrasta, e all’acqua che scorre sempre uguale sempre diversa – rivive così l’antica anima commerciale del Tevere su cui si trasportavano verso l’Urbe i prodotti agricoli di cui era ricca l’Umbria (olio, vino, fichi, ortaggi), ma anche il legname, indispensabile per la costruzione di case e di navi. Quando al tramonto l’acqua diventa d’oro e le case di tufo con le finestrelle di vetro riflettono quei raggi di luce, Orte sembra trasformarsi in un gigantesco cinematografo che ha come schermo la facciata più liscia della rupe, ben visibile dall’autostrada. Qui, secondo un altro progetto del Comune, si potrebbero proiettare frammenti dei tanti film prodotti da Filoteo Alberini, scorci del borgo, immagini della processione del Cristo morto, altro momento importante per la vita culturale, religiosa e turistica del borgo del viterbese. Una scommessa che lotta a corpo a corpo con la difficoltà di individuare le risorse, eterno problema di tutte le amministrazioni pubbliche. C’è però un’altra sfida da affrontare: ritrovare quel famoso brevetto che arrivò in ritardo ad Alberini, decretando la fama imperitura dei Lumière, a danno del nostro. Perché è proprio quel pezzo di carta che potrebbe cambiare la storia del cinema, e bisogna essere grati al geniale Filoteo Alberini e anche a Orte, che cerca di celebrarlo come merita: il suo kinetografo – con tutti i perfezionamenti successivi – continua a far sognare realtà e mondi alternativi, emozionando, sorprendendo, provocando e, comunque sia, rendendo migliore la vita

 

Alla ricerca del cinetesoro perduto

Si trova, forse, in un deposito in via Roberto Ago a Roma il brevetto del kinetografo di Filoteo Alberini, insieme alla “dote” del Museo internazionale del cinema e dello spettacolo di Roma, creato nel 1959 e gestito dallo storico del cinema José Pantieri. Il museo è morto e sepolto da quindici anni, le collezioni sono scivolate da molto tempo in un cono d’ombra. Ma una lunga indagine e decine di telefonate hanno permesso di ritrovarne le tracce. Tutto nasce dalla passione di José Pantieri per il cinema. La sua vita è un collezionare di foto, film e cimeli. Il tesoretto col tempo diventa un tesoro di ricordi, composto da due milioni di foto, cinquemila pellicole, lanterne magiche (“bisnonne” del cinema) e poi costumi, manifesti, locandine, sceneggiature originali, registratori, bobine e, appunto, l’attestato di Privativa Industriale di Alberini.

Fino al 2003 la collezione era esposta a Roma in via Portuense 101, fra Trastevere e Porta Portese, in un ex pastificio costruito ai primi del Novecento dal nonno di Roberto Rossellini, dove Vittorio De Sica ambientò alcune scene di Ladri di biciclette. Poi l’edificio viene abbattuto per lasciare il posto a un mega condominio e la maggior parte di quel materiale viene vincolato e acquisito provvisoriamente – a causa della malattia di Pantieri – dalla Soprintendenza dei beni culturali di Roma (oggi Soprintendenza speciale archeologia belle arti e paesaggio) – che lo custodisce in un deposito. Le pellicole invece sono consegnate alla Cineteca nazionale, che tuttora le conserva come reliquie. Alla morte di Pantieri, nel 2013, la Cineteca nazionale di Bologna – come racconta il suo direttore Gian Luca Farinelli – manifesta agli eredi la volontà di acquisire il materiale, ma non riceve nessuna risposta. è interessato anche il Museo nazionale del cinema di Torino, che con i suoi operatori prende in visione i reperti e rimane in attesa di un segnale da parte della Soprintendenza, che non arriva.

Dopo sei anni di buio, si è scoperto grazie a una serie di persone di buona volontà – come Cosetta Del Faro della Cineteca nazionale, Donata Pesenti del Museo nazionale del cinema di Torino e Maria Emanuela Marinelli della Soprintendenza – che il resto del patrimonio di Pantieri sopravvive in stato di degrado in un deposito di via Roberto Ago, lungo l’Aurelia alla periferia ovest della capitale, e che non è possibile accedervi per problemi con i proprietari (gli eredi di Pantieri, che vivono in Finlandia). Di certo la storia non finisce qui; c’è da sperare però che non trascorrano altri decenni di attese inutili, deleteri per quel fragile e prezioso materiale.
 

 

Foto di Giuseppe Carotenuto