di Vittorio Emiliani | Illustrazioni di Franco Spuri Zampetti
La storica cittadina pugliese spicca per eleganza e pulizia. Alla quale contribuiscono anche gli ultimi arrivat
Tutte le volte che torno, sempre volentieri, a Martina Franca alta, sulla valle dei misteriosi trulli, mi colpisce l’incredibile pulizia delle sue strade, la conservazione delle sua bianche case. Il primo che me la fece conoscere dalle nebbie di Milano fu Paolo Grassi, fondatore con Giorgio Strehler del mitico Piccolo Teatro, che era nato nel “nost Milàn” e però rivendicava sempre di avere le proprie radici a Martina. Dove gli hanno dedicato un bell’auditorium. Un grande della storia dell’arte, Cesare Brandi, ha sintetizzato meglio di tutti il carattere di questo gioiello: «E pur col suo anonimato architettonico, Martina non è anonima: ogni cosa sembra firmata da un artista gentile e modesto che preferisce lasciare solo una data». Infatti nella bianca Martina, intitolata a San Martino di Tours, non mancano certo i palazzi di grande qualità e maestà, dal seicentesco Palazzo Ducale dei principi Caracciolo all’arioso Palazzo Martucci, con le raffinate lesene che ne scandiscono la facciata, all’elegantissima Porta di S. Stefano. Le chiese tutte fra barocco e rococò come la settecentesca S. Domenico o la lussureggiante S. Martino, le cui facciate sono autentiche sculture, per citarne appena due della quindicina esistenti. Ma non c’è un autore che svetti, che le firmi. La città, come osserva Brandi, non è mai anonima. Anzi ti affascina e staresti ore seduto a veder mutare quel bianco dal rosa dell’alba allo splendore del sole pieno, all’azzurrino della notte che incombe. Fra piazze e vicoli che salgono e scendono pavimentati da una pietra locale tenuta a specchio.
Parlando delle tante chiese notabili, come non ricordare in questa città, fondata da esuli tarantini, che è stata longobarda, sveva, angioina (in quel periodo divenne Franca), aragonese, con una importante comunità ebraica, come non ricordare l’incredibile numero di Arciconfraternite: ben 8, dagli Artieri al Ss. Sacramento dei Laici. Tutto qui è curato con amore. Vi hanno contribuito anche gli albanesi dopo l’ondata del 1991. Si sono inseriti bene e come poi i romeni concorrendo ai restauri. Interessante è il Museo del Bosco delle Pianelle, con oggetti e strumenti del mondo contadino di ieri. Notevoli i ritrovamenti archeologici sul monte Fellone. Deliziosa la cucina, molto migliorati i vini e i formaggi. Siamo sulle colline delle Murge dalle quali si scorge l’Adriatico. Ma prima viene la foresta di pietra dei trulli che risalgono alla preistoria, dimore di pastori e di contadini, pietra locale e malta a forma di cupola sormontati da simboli orientali, esoterici, cistiani. Un vero e proprio borgo ad Alberobello e un villaggio diffuso sotto Martina, spettacolo grandioso, specie in primavera. Alla unicità della Valle d’Itria, quasi mezzo secolo fa, alcuni appassionati intitolarono un festival musicale di ricerca, promotore un grande musico musicologo e “vociologo”, Rodolfo Celletti (nell’illustrazione), quest’anno dedicato agli “albori e bagliori” dei napoletani Cimarosa, Manfroce e Porpora.