I pazienti cacciatori dello Stretto

Nuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio ZicariNuccio Zicari

Tra Scilla e Cariddi ogni estate va in scena l’antico rito della pesca del pescespada. Una battaglia quotidiana tra uomo e animale, rispettosa dell’ambiente e delle tradizioni

«Non lo pensare. Se lo pensi non arriva». Si sta come nel corridoio di una sala parto, ma si è per mare: in barca, tra Scilla e Cariddi, nello Stretto di Messina. È tutta una lunga attesa la pesca del pescespada. Possiede un’aura di leggenda questa pesca che non è una pesca, ma è piuttosto una caccia rispettosa. Attività antica praticata nello Stretto da secoli: quelli che sanno di storia dicono che già Polibio l’avesse descritta, un secolo prima di Cristo. Quelli che passano tutto il giorno in barca forse la storia non l’hanno studiata e Polibio non hanno idea di chi sia, ma sanno per certo che dagli anni Cinquanta nello Stretto questa pesca che non è una pesca si fa così, con le spadare, imbarcazioni con un’alta torretta e una lunga passerella sulla prua. Prima c’erano barchette a remi e sembrava Il vecchio e il mare. Era una disfida vera e propria: uomo, arpione, pescespada. Perché per secoli questa è stata una pesca di terraferma: la preda veniva avvistata dalla costa, da postazioni che si trovano in alto sulle montagne calabresi dove c’erano i vigneti e adesso non c’è più nulla. In mare stavano su barchette minute, quasi fragili, grandi un quarto quelle di oggi. Tra terra e mare si comunicava con urla e bandiere: «pi ghiuso, pi suso»; «montante, calante». E via, all’inseguimento.

Poi sono arrivati i motori, qualcuno ha affinato l’ingegno ed è nata questa feluca dello Stretto dal profilo strano, che a ben vedere assomiglia a un pescespada. Con questa passerella protesa in avanti, 20, 30 metri sospesi sul blu assomiglia alla spada del pesce, con il traliccio in mezzo a far da pinna. Ventiquattro metri misura quello della Patriarca II su cui navighiamo. Ventiquattro metri da cui si domina il mare e si cerca di scorgere il pesce che nuota a pelo d’acqua e alle volte salta anche. In cima, su una pedana grande quanto una scrivania, a’ coffa, stanno in quattro: un timoniere, un macchinista e due ’ntenneri, due vedette, che stanno spalla contro spalla e coprono tutti i 360 gradi della visuale. Serve pazienza a cacciare il pescespada. Per ore e ore le vedette arano con gli occhi il tratto di mare assegnato. Vedono cose che altri neanche intuiscono. Mentre l’equipaggio si prepara alla caccia con arpione e fiocina: strumenti antichi, perché questa è una battaglia più che una pesca. C’è il sangue, l’abilità, il silenzio, la pazienza. Santa pazienza.

A bordo vige un antico ordine marinaro, che porta a darsi ancora del lei per rispetto dell’anzianità dei più grandi, specie di Filippo che ha 65 anni, sulle barche c’è quasi nato e ci sta ogni giorno da una vita. E poi ci sono le credenze, perché ogni vero pescatore cacciatore è parco di parole ma pieno di superstizioni. «Se lo pensi il pesce non arriva. Non lo pensare», ripete Fortunato, 35 anni, che dell’imbarcazione è il comandante da quando l’ha ereditata da suo padre. Lo scafo della Patriarca II misura 16 metri, ha una chiglia affusolata blu scura con inserti arancioni, corredata di immagini votive: la Madonna della montagna, la Madonna del Carmelo e le foto del padre del capitano, sorridente e protettivo. Serve pazienza a cacciare il pescespada, perché è un’esperienza strana. Ernest Hemingway sarebbe stato sbronzo ben prima di pranzo, qui invece non si beve, solo caffè: scuro, caldo, già zuccherato. Si gira in tondo all’infinito davanti a Scilla. Lo si consuma, il mare, bordeggiando per ore nello spazio assegnato. Si scruta, si cerca un segno, un’ombra, un poco di schiuma. Si combatte con le nuvole, i riflessi, la luce. Si maledicono le scie delle grandi navi che “scalano” nello Stretto, dallo Ionio al Tirreno, dal Tirreno allo Ionio. Si invoca la sorte. Si ha come l’impressione che quello che si sta cercando sia il proverbiale ago nel pagliaio. Solo che il pagliaio si muove e non è neanche detto che ci sia questo benedetto ago. Così questa sembra una pesca per persone serene, attendisti dell’amo, filosofi della rete, capitani Achab destinati a non uscire mai da Scilla e Cariddi. Destini strani, in cui si rimane impigliati. «A me il pescespada neanche piace – dice Fortunato nascosto sotto gli occhiali da sole –. Lo mangio, certo. Ma due volte l’anno. Due fettine, quelle tagliate vicino a dove entra l’arpione, che sono le più saporite. Non mi piace, però me lo sogno la notte: piscispada, piscispada, piscispada. Quando fai questo mestiere non riesci ad avere una vita normale, come fai ad avere una vita normale? La testa batte sempre qui, alla barca, alla caccia, al mare».

Serve pazienza a cacciare il pesce spada. Contemplatori dell’assoluto, screpolati dai raggi del sole, consumati dall’attesa, i pescatori dello Stretto sono uomini di fatica: perché stare 12 ore in mare è romantico solo per chi vive in città e si atteggia a marinaio. Per gli altri è fatica, fatica vera. Fatica che un tempo tra Scilla e Ganzirri, sul lato siciliano, dava da vivere – e bene – ad almeno 40 famiglie. Ora sono molte, molte meno. «Il pesce, il nostro pesce fresco, quello di passerella, arpionato, si vende allo stesso prezzo del pescespada preso con i palamiti in profondità, che rimane lì anche due giorni e muore d’agonia. E quando lo cucini in padella è tutto pieno d’acqua, te ne sei mai accorto?». Al mercato, a Messina, costa 30 euro al chilo; a Milano in pescheria forse 40. Ma se è preso da una nave fattoria o da degli eroi del mare chi lo viene a sapere? In bocca, chi sa riconoscere la differenza? Questo se fosse un vino sarebbe un Cru, invece è un pesce: zero marketing, solo fatica. «Ormai anche qui a Scilla alle volte quello che vendono arriva dal Marocco e il prezzo è lo stesso». Ma questo è tutto un altro pesce, un altro sapore, un altro orgoglio di essersi appostati, di aver atteso, di aver avuto la destrezza di lanciare un unico arpione, oppure una fiocina con quattro punte e averlo preso questo benedetto pisci. Oltre 50, 100 chili, fino a 200, è una bella bestia il pescespada. «Nel 2012 ne ho preso uno di 220 chili, ma qui a Scilla sono arrivati a prenderne anche di 260 raccontano, perché io non c’ero».

E non sono vanterie di pescatori, ma storie vere di famiglie che grazie alla pesca sopravvivono da una vita. Famiglie rispettose del pesce e del mare. «Perché quello piccolo noi mica lo prendiamo: che facciamo ci togliamo il pane dalla bocca per il prossimo anno?». Già, il prossimo anno. Perché anche se è dura, se le spese sono sempre di più, il gasolio cresce, i regolamenti feroci – scritti da chi non ha mai messo piede su una barca –, c’è sempre un prossimo anno cui pensare. Un nuovo ’ntennere da formare, come Antonio che sale sulla barca finita scuola e se ne va dopo un paio d’ore passate a scrutare il mare dall’alto, che a casa ci sono compiti da fare. Anche Antonio impara che serve pazienza a cacciare il pescespada. Te lo ripetono ogni momento quando proprio non arriva, e sono passate almeno sei ore da quando si è salpati. E uno di città si chiede perché non si usino esche, perché non si guardi l’ecoscandaglio, perché non ci si aiuti con la radio con le altre imbarcazioni. Perché questo, perché quello. Quante domande fa chi non è abituato ad aspettare. Eppure lo diceva già Herman Melville: «Acqua e meditazioni sono sposate per sempre».

E se lo scriveva lui c’è da crederci, certo. Però, davvero, quant’è difficile aspettare. La gente di terra è ospite irrequieto, ma a bordo l’irrequietezza è un lusso che non serve a nulla. «È inutile che stai lì e dici viene. Quello mica viene se lo chiami. Arriva quando dice lui, può essere che non arriva. Ma quando arriva devi essere pronto, dura un attimo, senti un fischio e sai cosa devi fare. Devi sempre essere pronto. Io quando sto qua sopra neanche in bagno vado, me la tengo. Che faccio? Mi chiudo là dentro, e se poi arriva?» spiega Fortunato. Ma quando finalmente arriva tutti sanno cosa fare. La feluca rallenta, il motore tace. La barca si fa ancora più silenziosa, il timoniere aspetta, si mette dietro al pesce e inizia l’inseguimento, zac… veloce, che il pesce lo sa, ti vede, ti sente. A prua l’uomo con l’arpione sembra un bomber in area di rigore, il numero nove appostato in attesa di una palla, quell’unica palla buona da sbattere in rete e tanti saluti. Può capitare però che di palla non ne passi una per tutta la partita, e allora si aspetta. Silenziosi e ciondolanti, si sistema qualcosa in coperta col sorriso tirato, si guarda il telefono più volte, e poi alla fine forse eccola, la palla giusta: u’ pisci. Ma oggi proprio non è giornata, neanche una palla buona, e sono quasi le cinque. C’è sempre il recupero. «La pesca non è finita fin quando non entriamo in porto. Non è mai finita» rassicura Fortunato. Non mollare mai, canterebbe la curva.

Serve pazienza a cacciare il pescespada, perché intorno il paesaggio è sempre lo stesso: il vasto mare che poi non pare così vasto visto da qui. Il mare incastrato tra capo Peloro e la punta di Torre Cavallo; l’Aspromonte con le sue balze scoscese da un lato e i Peloritani dall’altro. Lo Ionio freddo freddo e il Tirreno, più caldo; Ganzirri e Scilla; i due piloni bianchi e rossi dell’Enel ormai scoloriti a vigilare al passaggio; il profilo dello Stromboli che fuma all’orizzonte e le altre isole delle Eolie che alle volte si intravedono. «Che isola è quella?», domandi. «Isola». Già: che lo si chiede a fare? La contemplazione del paesaggio è un altro lusso dello spensierato turista. E poi le gru del porto di Gioia Tauro a Nord, le pilotine che trasportano i piloti a bordo delle immense portacontainer della Linea Messina o della Cosco Lines. A giorni stabiliti, come fossero una corriera, passano di qua con il loro carico stipato nei container. E chissà perché – colpa dell’attesa, sicuro – allora viene da pensare trasporti pescespada congelato. Tre volte al giorno passa l’aliscafo destinazione Messina; una volta, al mattino, una nave da crociera con il suo carico senza pensieri. «Questa non è una pesca, è una malattia. Lo facciamo da quando siamo ragazzini, ci piace questa cosa di andare per mare e attendere. Attendere e cacciare. Mio padre mi ha portato a bordo quando avevo 11 anni. Venivo d’estate, erano le mie vacanze» spiega Fortunato. E chiamale vacanze.

Serve pazienza a cacciare il pescespada, e meno male che questa lotta psicologica dura solo quattro mesi. Quattro mesi tra maggio e settembre in cui, mare permettendo, ogni mattina la Patriarca II con i suoi sei uomini di equipaggio salpa dal porto di Scilla, giusto sotto il castello e inizia a perlustrare la sua “posta”, il tratto di mare di qualche manciata di miglia quadrate che è capitato in sorte alla feluca. Uno dei 14 quadranti per 14 equipaggi, quanti ne sono rimasti a cacciare il pescespada in queste acque trafficate. Quattro feluche calabresi tra Scilla e Bagnara, e dieci siciliane, di Torre Faro e Ganzirri. Nei primi mesi della stagione si pesca dal lato della costa calabrese, nei successivi si passa dal lato messinese. Si segue il pesce, che a sua volte segue le correnti. Ed è tutto un inseguimento paziente, che dura ore, giorni, settimane. Si segue il pesce maschio, che segue il pesce femmina.

Si inseguono ombre, spruzzi, impressioni che un occhio esperto riconosce e per gli altri sono solo onde. Ma perché solo quattro mesi dura questa pesca? Perché il pescespada, solitamente guardingo e amante delle acque profonde, in questi quattro mesi estivi impazzisce. E non è un modo di dire: va in amore e perde il senno. Il maschio, che è più piccolo della femmina, si mette a inseguirla, ebbro d’amore, non la molla nel suo muoversi dal Tirreno allo Ionio per andare a deporre le uova. Raccontano che prima sia meglio arpionare la femmina, per assicurarsi che il maschio non fugga e continui a girar intorno, impazzito, speranzoso. Anche lui in attesa, l’ultima. Serve pazienza a cacciare il pesce spada e a sera, dopo le sei, quando attracchi i compaesani stanno sul molo ad aspettare: «’Ato, come ha ghiuto?». «Fortunato, come è andata?» «Male». L’abbiamo pensato il pesce. Troppo. Non è arrivato.

Foto di Nuccio Zicari