di Antonio Armano | Foto di Giacomo Fe'
Nel sudovest del Paese, l’isola di Kyūshū è il regno dei crateri attivi, che dominano il paesaggio e donano ricche fonti termali, gli onsen, dove ritemprarsi fuori dall’ordinato caos delle città giapponesi
«A quei tempi ci volevano dai 34 ai 40 giorni per recarsi dall’Italia in Giappone. Certo erano ritmi del tutto diversi da oggi, però, bisogna dirlo si vedeva tanto mondo...». L’invidia nei confronti del viaggiatore del passato è mitigata solo dall’invidia che il viaggiatore del passato a sua volta prova per chi lo ha preceduto. Sbarcato a Kobe nel 1938 Fosco Maraini invidia l’inglese Henry Savage Landor che ha visitato nel 1893 a cavallo, libero come il vento, un Hokkaido ancora intatto, primordiale ed eterno, mentre lui lo percorre in treno e con gli sci di legno, dormendo in un pionieristico sacco a pelo comprato a Trieste, nelle capanne “modernizzate” degli Ainu e battendo comunque i denti all’alba. Penso al libro di Maraini Case, amori, universi mentre su una barca a coda lunga solco il fiume che attraversa Bangkok, da un molo vicino al tempio dove si trova la grande statua del Buddha sdraiato fino alla sagoma verticale dell’Hilton Millennium. Secoli di storia thailandese si riflettono sulle acque grigie del Chao Phraya in netta contrapposizione posturale. Lo stop-over di mezza giornata della Thai Airways restituisce al viaggio una dimensione esplorativa che non sia solo aeroportuale. E lo stesso vale per la fine del viaggio.
Per arrivare a Kyūshū, la più meridionale delle quattro isole principali dell’arcipelago giapponese, atterro a Fukuoka, per tornare in Italia partirò da Tokyo, che dista due ore di volo da qui. A un primo impatto Fukuoka è l’opposto della brulicante Bangkok. L’ordine, il rigore e l’automazione dominano l’orizzonte urbano e la temperatura è scesa di venti gradi. In compenso questa è la città del Giappone dove più si mangia negli yatai (bancarelle che vendono cibo da strada) alla moda del Sud. E così passo la sera da Chusuke, uno di questi chioschetti su ruote, ipnotizzato da un giapponese che arrostisce yakitori, spiedini di pollo, e prepara il ramen nella variante locale (Hakata) con brodo di osso e carne di maiale, da accompagnare ai gyoza, i ravioli giapponesi con ripieno di carne e cavolo cinese: una capsula di vecchio e fumante caos asiatico, nel buio silenzioso non distante dal palazzo della Bank of Japan. La catena delle invidie tra viaggiatori non è infinita. Chi mai potrà avere invidiato Marco Polo, il primo occidentale a raccontare il Giappone sia pure attraverso le avide parole di Kublai Khan? Il gran khan tenterà in quel periodo – nel 1274 e 1281 – di invadere la favolosa terra ricca di oro, perle e metalli preziosi, ma per due volte la sua flotta sarà sconfitta a Fukuoka, nella baia di Hakata, anche grazie ai kamikaze, i venti divini, i provvidenziali tifoni.
In geologia si definisce “cintura di fuoco” l’arco di 40mila chilometri che percorre le coste del Pacifico ed è segnato da eruzioni vulcaniche e terremoti. La parte più infuocata della cintura di fuoco è quella del Giappone, che può vantare 108 dei 1.500 vulcani ancora attivi e il dieci per cento di quelli più pericolosi. Il monte Fuji, simbolo onnipresente nell’iconografia nazionale, è un vulcano, anche se non erutta più dal 1707 e la neve perenne imbianca la vetta dei suoi 3776 metri. I vulcani sono una minaccia, ma rendono fertile il terreno e scaldano le acque nel sottosuolo. Adagiata in un’ombrosa e vaporosa valle dove arrivo di sera, Oguni-machi, nella prefettura di Kumamoto, sotto la caldera vulcanica dell’Aso, sembra una delle calviniane città invisibili raccontate da Marco Polo a Kublai Khan. La particolarità fantastica è che qui la gente cuoce o scalda il cibo sul vapore che fuoriesce dal terreno convogliato da tubi metallici, ma sono troppo stanco per osservarla. Infilo la yukata, un kimono di cotone leggero, e mi abbandono alle mollezze dell’onsen. Se i turchi hanno il bagno turco, gli svedesi la sauna svedese, i russi la banja russa, i giapponesi hanno l’onsen. Gli onsen nascono come ribollenti bagni vulcanici, seminascosti in paesaggi rocciosi. Si trasformano in stazioni di sosta dei samurai per il rito dell’igiene e della rigenerazione, in seguito frequentate da un pubblico più ampio. Prima si accedeva tutt’insieme, ora c’è la divisione tra sezione maschile e femminile. Leggo la storia dell’onsen in un libro scritto da Steve Wilde e Michelle Mackintosh. Gli autori, una coppia di australiani, hanno scandagliato il Giappone alla ricerca di località termali scrivendo una guida alla «gioia assoluta di immergersi nudi dentro le ataviche acque curative sgorgate dal profondo del sottosuolo giapponese». Guardando da dietro una comitiva di manager nudi all’onsen di Oguni-machi mi chiedo quale gioia può essere assoluta, ma penso che questa la sia quando scopro che, oltre alle vasche di legno al coperto, ci sono pozze nella roccia all’aperto, dove il vapore si perde nell’oscurità notturna della vallata e il sudore inizia a bagnare l’asciugamano che si usa come fascia per la fronte.
Una cosa che ammiro molto dei giapponesi è lo spirito di servizio con cui organizzano gli spazi pubblici non dando nulla per scontato. All’ingresso dell’onsen c’è una tabella con scritto anche in inglese tutto quello che bisogna fare e non fare. Questo onsen non è presente nella guida degli australiani, ma trovo invece Ibusuki, la spiaggia dove mi farò seppellire domani sera, sotto la sabbia calda, lambita dalle fredde acque del Pacifico d’inverno. Tra le eruzioni più devastanti che si sono verificate in Giappone c’è quella del 1914, quando il vulcano Sakurajima ha unito l’isola dove si trova alla baia di Kagoshima. Il vulcano ha tre picchi: Kitadake, Nakadake e Minamidake; solo l’ultimo è ancora attivo. Ci arrivo con un bianco ferry-boat dal sapore vagamente retro – ricorda i battelli del Mississipi – e una delle prime cose che vedo sono le vasche in legno di acqua calda dei giardini dove la gente immerge i piedi. Sotto al Dio vulcano la terra è piena di doni: pranzo in un’acetaia, con una spettacolare distesa di otri in fermentazione verso il mare, e sento la gente del posto vantarsi dei meravigliosi mandarini e delle rape giganti. Allo stesso tempo, il fumo che sgorga dal vulcano e le foto dell’eruzione del 1914 ricordano che il vulcano può essere terribile come ogni divinità. Salendo dalla costa verso il centro, l’isola è sempre più coperta di polvere grigia e mi fermo a vedere un cimitero dove le ceneri tumulate nelle tombe sono coperte di cenere. Cenere su cenere... Strada facendo incrocio diversi bunker dove rifugiarsi in caso di eruzione. I bambini vanno a scuola con il casco protettivo.
All’inizio dell’anno Mille in Giappone, una dama di corte, Murasaki Shikubu, ha scritto il primo romanzo moderno. S’intitola La storia di Genji e narra le avventure, spesso amorose, del secondogenito dell’imperatore. In uno dei capitoli conclusivi, L’illusione (Maboroshi), Genji riflette sulla precarietà della bellezza. Il Giappone ha incarnato nel modo più sublime questo concetto, tra la fioritura dei ciliegi e i dipinti del mondo fluttuante. Qui dove neanche la terraferma è ferma, l’anima incarna forti contraddizioni: tradizione e modernità, chiusura del periodo Edo e progresso del XX secolo, grazia sofisticata e sofisticata violenza. Il Chiran Peace Museum, vicino a Kagoshima, è dedicato ai tokkō, i kamikaze, ed è pieno di reperti della fase più difficile della storia moderna giapponese. Il Giappone ha subito diverse sconfitte umilianti: come quando le “navi nere” americane hanno posto fine al periodo Edo, imponendo l’apertura commerciale dell’impero del Sol Levante, chiuso a ogni influenza esterna da oltre due secoli. Gli americani hanno inflitto la seconda sconfitta alla fine della seconda guerra mondiale. L’unico modo per contrastarli, esaurito ogni altro mezzo, erano le missioni suicide dei kamizake: divise, fotografie, strazianti lettere di addio alla famiglia e diversi aerei, tra cui un Mitsubishi Zero ripescato dal fondo del Pacifico e rimesso insieme pezzo per pezzo, guidano il visitatore in un percorso che rende onore ai giovani martiri giapponesi in una prospettiva di pacificazione, come indica il nome stesso del museo, senza rinnegare il passato.
A quel tempo Fosco Maraini era detenuto al Tempaku, un campo a Nagoya, e così, sempre in Case, amori, universi, descrive l’azione di un kamikaze: «Fu allora che i detenuti, tra i quali Clé, videro apparire in cielo certi puntolini neri che, accanto alla mole dei B29 americani, sembravano dei moscerini intorno a dei falchi. Fu subito chiaro che si trattava di kamikaze, di piloti suicidi (...). Proprio sopra al Tempaku, forse a un migliaio di metri di altezza, uno dei moscerini puntò diritto verso il suo B29, le distanze s’accorciarono, s’annullarono, ecco il terribile scontro. Una gran fiamma rossa scoppiò allora in cielo e il gigante, dal quale si era subito staccata un’ala, cominciò a precipitare a foglia morta, bruciando ed esplodendo verso terra. Mentre bombe, corpi, frammenti d’apparecchi calavano con quella che sembrava una solenne e tragica lentezza, da tutta la città si levò un grido di straordinaria potenza, lanciato da migliaia di petti: Banzai! Urlavano tutti. Banzai!». Il colonnello Masanobu Kuno prima di decollare verso il martirio scrive: «Figlie mie, non dovete essere gelose del padre degli altri, perché vostro padre è diventato un dio e vi guarda sempre. Vostro padre è felice!». È diventato un dio perché nella concezione shintoista il cammino dei padri eroici fonde millenni di storia e religione insieme. Ho visitato diversi santuari shintoisti tra la casa del tè e quella degli spiriti, il portale d’accesso chiamato torii, le ema, tavolette votive di legno appese al vento...
Quello che mi ha più colpito, vicino a Fukuoka, si chiama Dazaifu Tenmangū ed è dedicato a Tenjin, versione divinizzata di Sugawara no Michizane, poeta vissuto nel IX secolo, caduto in disgrazia presso la corte imperiale, per intrighi del clan rivale, ed esiliato qui. Mi sono perso tra centinaia di studenti in cerca della protezione di Tenjin, divinità dell’apprendimento: ex voto per il voto. Il tè matcha che mi hanno servito era denso e buonissimo e l’atmosfera spirituale e mondana insieme. Può sembrare lontana da noi la visione divinizzante degli antenati nello shintoismo, ma in fondo, almeno nel caso di Sugawara, non è lontana dallo spirito con cui leggiamo Maraini o Lafcadio Hearn, greco-irlandese nipponizzato, un misto tra Marco Polo ed Edgar Allan Poe: Spigolature nei campi di Buddho, Storie di spettri giapponesi, Ombre Giapponesi... Se qualcosa della loro anima sopravvive, si trasmette nella scrittura.