Mozambico, in beata solitudine

Sandro BoeriSandro BoeriSandro BoeriSandro BoeriSandro BoeriSandro Boeri

L’arcipelago delle Quirimbas e l’Ilha de Moçambique sono le migliori destinazioni marine del Paese africano, ancora poco frequentato dai turisti eppure bellissimo e ricco di testimonianze di un passato multiculturale

«Tra pochi minuti atterreremo» comunica il pilota del piccolo Cessna che ci sta portando a Ibo, la prima della catena di isole che affiancano le coste del Mozambico partendo da nord. E in effetti dai finestrini si comincia a intravedere una pista sterrata tra fitte foreste di mangrovie. Solo che, laggiù, sulla pista c’è qualcosa di molto più simile a un campo giochi: decine e decine di bambini che giocano a palla, corrono, salutano. Per fare loro capire che dovrebbero quantomeno spostarsi un pochino, il pilota è costretto a esibirsi in ben due passaggi a bassissima quota sopra la pista. Finalmente atterrati scopriamo che anche l’aeroporto non c’è, non esiste. O, almeno: c’è l’aereo (il nostro) ma non il porto. Niente edifici, niente controlli, personale, biglietterie, edicole, bar. Niente di niente. Salvo due, chiamiamoli così, taxi, che altro non sono che versioni locali dell’Ape Piaggio con due panche appoggiate nel cassone posteriore come sedili per clienti.

Da Ibo, che è a nord, come tutto l’arcipelago delle Quirimbas, fino a sud, da Ilha de Moçambique fino all’arcipelago di Bazaruto, in Mozambico il turismo è ancora solo agli inizi. Chi sceglie di andarci oggi magari non troverà le comodità e le opportunità dei Paesi africani in cui il turismo è radicato da decenni, ma avrà la fortuna sempre più rara di vivere in una natura incontaminata, scegliere tra chilometri di spiagge assolutamente vuote, evitando così ogni genere di code, affollamenti e rumori molesti. Ibo per esempio è verde, rigogliosa, bagnata da un mare (che poi è l’oceano Indiano) ricchissimo di pesci variopinti, enormi conchiglie, barriere coralline, spiagge e fondali davvero notevoli, ma anche abitanti gentilissimi e bambini in abbondanza: sempre pronti a giocare con i turisti. Luoghi selvaggi (nel senso naturalistico del termine), luoghi ricchi di storia. Sia Ibo sia Ilha de Moçambique (200 chilometri più a sud, Patrimonio Unesco che ha dato il nome a tutto il paese), ospitano ancora tracce di quello che è stato uno dei primi casi di melting pot del pianeta. Qui, tra il 1700 e il 1800 si sono alternati e hanno spesso convissuto, uomini di tutti i continenti: tribù bantu (i primi ad arrivare), arabi (che fin dal X secolo hanno importato e diffuso la religione islamica), cinesi e, dopo la scoperta del passaggio dall’Atlantico all’oceano Indiano (quello che fu battezzato Capo di Buona Speranza), anche portoghesi (potenza coloniale fino al 1974) e inglesi. Queste isole sono infatti rimaste per quasi un millennio punti di riferimento e sosta per quasi tutte le rotte del commercio verso le Indie. Qui si acquistavano, a poco prezzo, spezie, oro, avorio e, soprattutto – a partire dal 1600 e fino alla fine del 1800 – schiavi. Si calcola che i locali capi bantu ne abbiano venduti, complessivamente, più di un milione. Ancora oggi gli arcipelaghi mozambicani ospitano i discendenti di quella comunità meticcia e gli abitanti ne portano dipinte nella loro fisionomia le tracce. «Mia madre è nera di pelle, figlia di un’araba e di un africano» racconta Raul Pereira che accompagna i turisti attraverso Ibo. «Mio padre era bianco, figlio di un portoghese e di una donna di origini indiane. Io sono quindi un melting pot vivente. Ho geni di tutti i continenti: africani, asiatici ed europei».

Ilha de Moçambique (il nome Mozambico sembra abbia origine dalla storpiatura portoghese di Mussa Bin Bique, un mercante arabo incontrato qui da Vasco de Gama nel 1498) è un mix di culture, un luogo mitico, un’isola-non isola collegata al continente da un ponte. Oggi ha due anime: una nera, prevalentemente swahili (termine che definisce sia la lingua diffusa lungo le coste sudorientali dell’Africa sia i popoli che la parlano) e una bianca, portoghese con componenti arabo-indiane. Ma anche due architetture. E almeno tre religioni: induista, cristiana e musulmana, che condividono con saggezza gli spazi culturali.

L’eredità portoghese è la più visibile sia nelle case sia nella rete delle strade. A Ibo le vecchie abitazioni in stile manuelino (dal nome di don Manuel I, re del Portogallo ai primi del XVI secolo) e barocco sono in gran parte semidiroccate, tranne il forte Sao João Baptista, restaurato e in buone condizioni. A Ilha, lunga 3 chilometri e larga 500 metri, la strada principale, a nord, nella cosiddetta Stone Town, la città di pietra, è costeggiata da palazzi meglio conservati, piccoli (e poco forniti) negozietti per turisti, qualche albergo, un mercato molto colorato con bancarelle di scarpe, vestiti, borse di pelle e frutta: tutto di ispirazione indoportoghese, più portoghese che indo. Mentre la parte sud dell’isola, il Barrio Macuti, ospita la zona più drammaticamente povera, la cosiddetta città sotterranea: un groviglio di case con tetto di paglia a 5 metri sotto il livello della strada, in una specie di fossa scavata quattro secoli fa per ricavare i materiali necessari per la costruzione della Ilha portoghese. Qui vivono circa 4mila persone, in condizioni miserevoli. Ma Ilha de Moçambique si estende ormai, grazie al ponte di 3,5 chilometri costruito negli anni Cinquanta del secolo scorso, anche sulla terra ferma e conta complessivamente 50mila abitanti.

Poi c’è il mare: l’oceano Indiano immenso e ricco di vita. Il modo migliore per esplorarlo è con un dhow: una barca con scafo in legno, a vela latina, tipica dei popoli di lingua swahili dell’Africa sud-orientale, ma anche della penisola arabica e dell’India. Attorno a Ibo abbiamo vissuto, con un dhow, giornate spettacolari: riposandoci e facendo pic nic su banchi di sabbia (in particolare il São Gonzalo Sand Bank) in mezzo al mare, avvistando più volte delfini, facendo snorkeling su relitti sommersi (la temperatura dell’acqua scende di rado sotto i 28 ˚C), ammirando enormi conchiglie, aggirandoci tra le isole senza mai incontrare altri turisti.

Diverso, per i mezzi usati, il viaggio a Quirimba: l’isola abitata che dà il nome all’arcipelago.  Per arrivarci ci vuole circa mezz’ora, occorre una barca a fondo piatto, in grado di navigare lungo un sentiero d’acqua profondo 30 centimetri che si fa strada tra le foreste di mangrovie, grazie a un piccolo fuoribordo o, più spesso, a lunghe pertiche con cui fare perno sul fondale. Il bello è che, dove le mangrovie finiscono, iniziano le spiagge di Quirimba: lunghissime, larghissime, di sabbia fine fine, che si distendono gradualmente nell’oceano. Il ritorno a Ibo, se c’è bassa marea, si può (talvolta si deve perché i motori non pescano) fare anche a piedi, in circa due ore. Un percorso tra colori, luci, tronchi, inciampi, rami, scivolate e profumi che richiede quantomeno scarpe adatte (il terreno sabbioso è impregnato d’acqua e scivoloso).

Da Ilha de Moçambique è possibile raggiungere, sempre con un dhow, la penisola Cabaceira e la baia che ospita un piccolo lodge, il Coral, affacciato su una lunghissima spiaggia con dune di sabbia bianca, perfetta per nuotate e camminate. Il lodge mette a disposizione sdraio, buona cucina e zero ospiti, almeno nel giorno in cui siamo approdati nella baia. D’altronde, anche se ci fossero stati altri turisti, non li avremmo notati dispersi come eravamo nell’immensità della spiaggia. E se non bastasse, a circa mezz’ora c’è una piccola isola, Sete Paus, disabitata, che appartiene al governo mozambicano. Anche qui mare azzurro, sabbia bianca e acqua a una temperatura ideale: né troppo calda né troppo fredda. Altrettanto bella, ma un po’ più lontana un’altra isola, piccola ma con un grande faro: Ilha de Goa. Deserta e senza turisti, come usa qui.

Fotografie di Sandro Boeri