di Viviano Domenici | Fotografie di Gianluca Panella
Porto franco per popoli, fedi e lingue diverse, approdo accogliente per mercanti e pirati: un livornese doc ci racconta passato e presente della città ideale voluta dal granduca Ferdinando I de’ Medici. La cui statua è ancora oggi fonte di equivoci...
Prima di andare a Livorno è bene leggere le Leggi Livornine che Ferdinando I de’ Medici, granduca di Toscana e vero «padre» della città meno toscana delle città toscane, emanò tra 1591 e il 1593, quando la città era ancora in costruzione e assediata dalle paludi. Sono una decina di paginette ma, se vi paiono troppe, date un’occhiata almeno alle prime righe, dove il Granduca scrive: «...A tutti voi, mercanti di qualsivoglia nazione, Levantini, Ponentini, Spagnoli, Portoghesi, Greci, Tedeschi, Italiani, Ebrei, Turchi, Mori, Armeni, Persiani ed altri. Saluto. [A tutti voi] Concediamo […] libero e amplissimo salvacondotto e libera facoltà e licenza che possiate venire, stare, trafficare passare e abitare con le famiglie, senza partire, tornate e negoziar nella terra di Livorno […] Vi concediamo, che possiate comprare in Livorno un campo di terra, per poter in esso sopelire i vostri morti, e che in esso non possiate esser molestati...».
Completato il testo con una quarantina di brevi articoli, Ferdinando lo spedì per conoscenza a Elisabetta I d’Inghilterra e ad altre corti europee con le quali aveva avuto a che fare durante gli oltre vent’anni in cui era stato un potente cardinale, prima di diventare Granduca di Toscana (nel 1587) e sposare Cristina di Lorena, che amò tutta la vita confessando comunque d’avere «due Dame»: la moglie e Livorno, altrettanto amata. Le prime righe del documento di Ferdinando fanno capire come nacque la città e come da quel miscuglio di popoli, di avventurieri, di fedi religiose diverse e di lingue assortite, siano nati i livornesi, oggi un po’ troppo innamorati del mito dei nonni pirati «col salmastro nelle vene» al posto del sangue. Folclore un po’ stantio, che fa un torto alla lungimirante concretezza delle Leggi Livornine.
L’invito di Ferdinando ai mercanti di tutti i Paesi cui assicurava niente tasse per parecchi anni e gran tolleranza religiosa e giuridica ebbe successo e vennero in tanti, ma soprattutto ebrei sefarditi in fuga da Spagna e Portogallo, oltre a olandesi, greci, levantini, corsi e cattolici inglesi, che battezzarono Livorno Leghorn (forse dall’arabo el garn, il corno). Oltre ai mercanti sbarcarono anche corsari e avanzi di galera, accolti tutti senza guardar troppo per il sottile, purché fossero intenzionati a cambiare vita, a commerciare con mezzo mondo e far più grande il Granducato di Toscana. Trovarono una città in crescita, disegnata a tavolino dall’architetto Bernardo Buontalenti che la realizzò a pianta pentagonale e circondata dai Fossi, tutt’oggi navigabili e in comunicazione con il mare, e con un porto che prese il posto di quello di Pisa, ormai interrato dai detriti portati dall’Arno.
Un porto dove si parlavano tante lingue tra cui il Sabir, una lingua «di servizio», che i barbareschi nordafricani crearono per comunicare coi «Franchi» (nome col quale indicavano tutti i cristiani) mescolando soprattutto genovese e veneziano con un dieci per cento di castigliano e qualche parola di arabo, catalano, greco, occitano, siciliano e turco. Un connubio da cui derivarono definizioni come «lingua franca» o «porto franco».
Nacque così una città cosmopolita e interreligiosa dove attraccavano navi cariche di merci e idee da tutto il Mediterraneo e perfino dall’Atlantico, dove ormai il Granduca guardava per sviluppare i commerci verso il Nuovo Mondo. Fu questo il sogno di Ferdinando, e le testimonianze della sua città ideale sono ancora presenti nel tessuto urbano di Livorno. Ebrei, cristiani, musulmani, greci ortodossi, armeni vivevano fianco a fianco, e ogni nazione – cioè ogni gruppo nazionale – era amministrata con larga autonomia da consoli eletti dalle comunità stesse, e aveva il proprio luogo di culto. Tutto questo mentre nel resto della Penisola i tribunali dell’Inquisizione s’accanivano con quelli che cattolici romani non erano e la pensavano diversamente. Magari solo un pochino. I cento bombardamenti dell’ultima guerra sbriciolarono il centro di Livorno, e molti templi andarono distrutti. Tra questi la grande sinagoga seicentesca poi ricostruita dov’era, alle spalle del Duomo; poco distante c’è ancora la bella chiesa dei Greci Uniti, di rito bizantino, e proprio accanto la settecentesca chiesa delle Nazioni dove si possono vedere, uno vicino all’altro, gli altari di diverse religioni: cattolici romani, olandesi alemanni, corsi, francesi e portoghesi. Tutti lì a pregare, gomito a gomito nella stessa chiesa. Un esempio della tolleranza granducale che fa il paio con un altro esempio anche più importante, proprio perché non è mai esistito: il ghetto degli ebrei, che potevano abitare dove volevano.
Anche i musulmani catturati in mare e detenuti nel Bagno dei forzati per essere legati al remo sulle galere medicee, quando non erano impegnati in mare o a portar pietre o scavar fossi, erano liberi di girare per la città, fare piccoli commerci in proprio e pregare Allah in uno dei quattro appositi locali dedicati al culto nello stesso Bagno, dov’erano rinchiusi solo di notte. Oggi del Bagno non rimane traccia, ma sappiamo che, nel 1764, prima di essere smantellato, ospitò proprio accanto una stamperia che pubblicò la prima edizione Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, che in altre città sarebbe stato vietato, e nel 1770 stampò la terza edizione dell’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert. Insomma, la giovane Livorno conquistò piccoli e grandi primati di civiltà che dovrebbero essere l’orgoglio di chi c’è nato – come il sottoscritto –, specialmente in giorni come questi, così dimentichi di tutto, così confusi.
Preso atto del passato multiculturale e interreligioso di Livorno, è tempo di occuparsi del monumento detto dei Quattro Mori, simbolo della città, proprio davanti al porto. In realtà si tratta del monumento a Ferdinando I che, impettito sul piedistallo, guarda il Mare Nostrum, da lui liberato (quasi) dalle navi turche e barbaresche che attaccavano le nostre coste per far razzia di merci, uomini e donne. La flotta di Ferdinando li sconfisse più volte, e suo figlio Cosimo II fece realizzare in bronzo da Pietro Tacca quei quattro schiavi nerboruti da incatenare sotto la statua di suo padre, scolpita nel marmo da Giovanni Bandini. Non in quanto schiavi mori, ma come nemici catturati in guerra e fatti schiavi; come sempre hanno fatto i vincitori coi vinti. Questo è bene precisarlo perché molti che scoprono Livorno senza sapere nulla della sua storia pensano sia un monumento al razzismo. Il Tacca li realizzò cercando i modelli nel Bagno dei forzati, dove c’erano galeotti d’ogni genere, e scelse un vecchio turco di nome Alì e un giovane nero centrafricano detto Morgiano. Sono riconoscibili a colpo d’occhio. Gli altri due non sappiamo chi fossero, e le loro fisionomie non fanno pensare fossero mori. Il colore scuro del bronzo deve aver favorito l’equivoco. D’altro canto, come poteva esserci un monumento al razzismo nella città delle Leggi Livornine?
I Quattro Mori sono a due passi dalla Fortezza Vecchia, una struttura fortificata capace di contenere cinquemila soldati, con tre poderosi bastioni e la torre rotonda, detta il Mastio di Matilde. È il cuore più antico della città, tutta in mattoni rosa, e sembra appena emersa dal mare azzurro. Da qui partirono Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano per i loro viaggi nel Nuovo Mondo, poi partirono le dodici galee con le insegne dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Spirito (fondato da Cosimo I) per la vittoriosa battaglia di Lepanto contro l’impero Ottomano. E da qui salparono, in tutta segretezza, anche due navi al comando dell’ex corsaro inglese Robert Thornton che, nel 1608, Ferdinando I inviò sulle coste della Guyana, sul Rio delle Amazzoni e alla foce dell’Orinoco, alla ricerca di un posto adatto per fondarvi una colonia granducale. Le navi tornarono dopo quasi un anno, ma il Granduca era morto mesi prima e il sogno granducale di mettere le basi di una Nova Fiorenza alla foce del Rio delle Amazzoni svanì nel nulla.
Percorrendo in barca il Fosso Reale si passa davanti al punto in cui furono ritrovate le false teste di Modigliani – qualcuno ancora ride – e poi si entra sotto la grande volta (lunga 220 metri) che sostiene Piazza della Repubblica. Che pare un gran palcoscenico dove due granduchi di Toscana, Ferdinando III e Leopoldo II, scolpiti in marmo come oratori romani, recitano il gran finale degli Asburgo-Lorena in Toscana. Sul basamento di Leopoldo II, il 16 agosto 1859, il popolo livornese appose una lapide burocraticamente perentoria: «L’assemblea dichiara che la dinastia Austro Lorenese si è resa assolutamente incompatibile con l’ordine e la felicità della Toscana». Eppure, proprio Leopoldo aveva da poco abolito formalmente – primo in Europa – la tortura giudiziaria e la pena di morte; lasciando comunque in vigore la gogna, la frusta pubblica e la frusta sull’asino. Da un lato della piazza, Giovanni Fattori, tutto di bronzo, un po’ curvo e con le mani dietro la schiena come un pensionato stanco, si guarda attorno pensieroso. Sembra aspetti l’autobus.
Costeggiando il fosso che scorre lungo il bastione della Fortezza Nuova s’arriva all’antico quartiere della Venezia (maestranze veneziane!) disegnato dai canali e riscoperto anche dai turisti più distratti grazie al film Ovosodo di Paolo Virzì, che ha sdoganato Livorno e il suo vernacolo, compresa l’espressione «boia de’», che non vuol dir nulla ma va bene per tutte le occasioni. La Venezia bisogna visitarla sia in barca sia a piedi, così si possono vedere bene «le case altissime, dalle facciate tinte di un intonaco biondo, dove il rosa e il verde si confondono, splendono al sole con riflessi d’oro e di verderame… le case più belle del Mediterraneo», come scrisse Curzio Malaparte nei Maledetti toscani.
E ripensare anche alla Venezia tutta ricostruita in studio (compresi canali, vicoli, ponti e un’improbabile nevicata) da Luchino Visconti nel film Le notti bianche, nel primo dopoguerra, per raccontare una storia d’amore finita bene per Maria Schell e male per Marcello Mastroianni. Un vero ponte di mattoni oggi molto frequentato dai turisti è quello con la statua di San Giovanni Nepumoceno, protettore della Boemia e di chi sta per affogare. Il sant’uomo di marmo sta ritto sulla spalletta con un crocifisso tra le braccia, le spalle all’acqua del fosso e una bella veduta della Fortezza Nuova. Qui pare che il selfie sia la regola. Pochi turisti, ma molto motivati, raggiungono invece i resti del Teatro San Marco, nell’omonima via, dove sventola ancora una bandiera rossa con falce e martello, e una targa ricorda che proprio lì, il 21 gennaio 1921, un gruppo di fuoriusciti dal Partito Socialista, tra cui Antonio Gramsci, Armando Bordiga, Umberto Terracini, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e il livornese Ilio Barontini fondarono il Partito Comunista Italiano. Qualcuno ci lascia ancora un garofano rosso.
Di giorno o di notte la Venezia livornese è sempre bella e fa immaginare la città prima delle bombe e quella ancora più antica dei Medici quando Piazza Grande e Piazza del Duomo erano un tutt’uno e la via Ferdinanda (oggi Via Grande) aveva le facciate dei palazzi disegnate da quel poco di buono di Agostino Tassi, lo stupratore di Artemisia Gentileschi, e da Livorno il granduca Ferdinando scriveva alla moglie rimasta a Firenze: «Venni questa mattina a desinare a Livorno […] et ho visto questa sera fare al calcio su la piazza del porto, et su quella del Duomo, che in Fiorenza non si fa tanto […] Et faranno un calcio a mezza livrea che non lo faranno così bello a Fiorenza et il giorno di detto calcio sarà domenica otto». E di certo andò a vedere la partita. Se fosse ancora vivo andrebbe allo stadio Armando Picchi con la bandiera amaranto sulle spalle.
Nel cuore della Venezia, un paio d’anni fa sono stati inaugurati negli ex Bottini dell’Olio d’epoca granducale una bella biblioteca che fa venir voglia d’andarci per vedere come sono le cose fatte bene, e un Museo della Città con capolavori di varie epoche, insieme alle false teste di Modigliani e una copia dell’imperdibile Vernacoliere – Mensile di satira, umorismo e mancanza di rispetto che è nato proprio qui, a Livorno, nel 1982. Altra biblioteca, quella Labronica, è a villa Fabbricotti in mezzo a un bel parco frequentato da studenti, mamme, nonni e nipotini; è il giardino di Livorno in attesa di giardinieri.
«Questa è la città d’Italia dove, dopo Roma e Ferrara, mi piacerebbe più vivere. Lascio ogni volta il cuore sul suo enorme lungomare, pieno di ragazzi e marinai, liberi e felici. Si ha poco l’impressione di essere in Italia […] Livorno è una citta di gente dura, poco sentimentale: di acutezza ebraica, di buone maniere toscane, di spensieratezza americanizzante. I ragazzi e le giovinette stanno sempre insieme. Il problema del sesso non c’è, ma solo una gran voglia di far l’amore. Le facce, intorno, sono modeste e allegre, birbanti e oneste. Pei grandi lungomari disordinati, grandiosi, c’è sempre un’aria di festa, come nel meridione: ma è una festa piena di rispetto per la festa degli altri».
Così apparve Livorno a Pasolini nel giugno del 1959, quando vi fece tappa durante un giro lungo le coste con la sua Fiat 1100, da Ventimiglia a Trieste, per poi raccontare com’era l’Italia sull’orlo della mutazione antropologica innescata dal miracolo economico, mentre il rispetto per la festa degli altri stava per essere travolto a gomitate dal consumismo, e le buone maniere toscane perdevano gran parte del buono che avevano. Quei sei chilometri di lungomare pedonabile, che va dal vecchio cantiere navale Orlando fino ad Antignano (quartiere natale di chi scrive), regalano davvero uno spettacolo. Il sipario si apre subito alla Terrazza Pietro Mascagni (livornese anche lui), una grande scacchiera a pianta arabescata distesa davanti al mare, inondata di luce o di Libeccio, accanto ai novecenteschi Bagni Pancaldi e all’imponente albergo Palazzo, adatto a re e regine d’altri tempi. Scenario metafisico così perfetto che Giorgio De Chirico non avrebbe avuto la minima difficoltà ad autenticare come opera sua. Poco distante c’è la Villa Mimbelli, dove Giovanni Fattori espone alcuni suoi grandi capolavori – da vedere, soprattutto i butteri maremmani al lavoro con i bovi – insieme ai suoi colleghi Macchiaioli.
Procedendo verso sud s’arriva a San Jacopo, dove l’Accademia Navale mette in mostra un brigantino a tre alberi con tanto di vele e sartiame, che però non si muove perché è interrato e serve a cadetti e marinai a far pratica prima di imbarcarsi sul veliero Amerigo Vespucci, la nave più bella del mondo, che qualche volta è all’àncora nel porto. Di fronte all’Accademia sfilano in bell’ordine una decina di villette color pastello, con tanto di torri merlate e tutte inebriate di liberty e un po’ d’Oriente. Passato l’ippodromo c’è subito Ardenza Mare dove, nei giardinetti davanti alla storica Baracchina Rossa, c’è Il pescatore. Un giovanotto in braghe corte sdraiato a pancia in giù che guarda lontano, col mento appoggiato a una mano. Non fa nulla, guarda e basta, forse prende il sole. M’è sempre sembrato il monumento a noi livornesi che guardiamo continuamente il mare, ma quasi mai prendiamo il largo. Ancora cento metri e c’è la piccola Rotonda tutta pini e lecci piegati dal vento, che per decenni ha fatto la felicità dei pittori livornesi da cavalletto e s’è da poco messa in ghingheri dopo decenni d’abbandono. Un paio d’anni fa fu proposto in consiglio comunale di intitolarla a Carlo Azelio Ciampi, gran livornese. Ma i grillini si opposero perché Ciampi «è stato uno degli artefici dell’ingresso dell’Italia nell’euro, e aveva una pensione troppo ricca» (sic). Sarebbe il momento di rimediare alla vergogna.
Usciti dalla Rotonda ombrosa e superata la spiaggetta dei Tre Ponti, inizia il viale d’Antignano fiancheggiato da tamerici, oleandri, aiuole e panchine vista mare per godersi lo spettacolo quando il sole s’avvia a tramontare dalle parti dell’isola della Gorgona, e in cielo cominciano gli effetti speciali. Anche i livornesi meno romantici zittiscono. Antignano s’annuncia con quello che rimane della fortezza fatta costruire da Cosimo I de’ Medici, che ci portò in visita anche Benvenuto Cellini. È ancora lì, ma è stata trasformata in un condominio. Il viale prosegue passando davanti all’ex villa della famiglia dei Ciano (livornesi anche loro), in cima alla collina di fronte si vedono i resti del loro mausoleo incompiuto che pare un tempio egizio.
Il lungomare prosegue sull’Aurelia, verso sud, con una manciata di chilometri che si snodano in salita tra macchia mediterranea e mare di cobalto, con curve dolci ma a picco sulla scogliera rosata. A ogni curva un nome tra storia e leggenda: castello del Boccale, gola di Calignaia, torre di Calafuria e Sassoscritto, poi la Cala del Leone subito prima del castello del Romito, dov’è sepolto Sydney Sonnino, il politico dei primi Novecento che scelse questa rupe spettacolare per passarvi l’eternità. È in questo tratto di strada che Dino Risi ambientò l’ultima scena de Il sorpasso, quando l’auto con Vittorio Gassman e Jean-Louis Trintignant precipita nello strapiombo, dove i cavalloni non si stancano mai di rovesciarsi d’impeto sulla scogliera, anche quando non soffia il libeccio. In cima al piccolo promontorio c’è un bivio che immette in una strada tutta boschi che porta a Montenero e al santuario della Madonna delle Grazie, protettrice della Toscana. In sacrestia c’è un ex voto da Mille e una notte. È un corpetto ricamato in oro e due babbucce di velluto color porpora, donati alla Vergine da una ragazzetta che «verso il 1800», nei pressi di Antignano, fu rapita dai turchi che la consegnarono all’harem del sultano a Costantinopoli; ma suo fratello viaggiò fin laggiù, la trovò nel giardino del gineceo e la portò via così com’era vestita. Ora corpetto e babbucce stanno lì a raccontarci quella storia.
Dal parapetto della piazza si vede tutta la città, il mare, il porto, le Alpi Apuane, l’isola della Gorgona che galleggia sull’orizzonte e la Torre della Meloria, dove nel 1284 i genovesi sconfissero i pisani. Genova divenne così padrona della terra di Livorno, che poi vendette ai fiorentini per centomila fiorini d’oro. Cominciò allora la storia di questa città e dei livornesi, che dovrebbero amarla come chi se ne andò tanto tempo fa, ma ci torna sempre a mescolare nostalgia e senso di colpa.