di Luca Bonora
I musei d'impresa raccolgono il meglio dei prodotti e della cultura del Made in Italy. Organizzano visite, mostre, eventi. Raccontano l’avventurosa storia del saper fare nazionale. Ce li racconta il presidente, Antonio Calabrò
«A che cosa serve un museo d’impresa? A dare tangibilità a una storia intangibile». La definizione, perfetta, è di Marco Montemaggi, fra i firmatari, nel 2011, del documento di nascita di Museimpresa, associazione promossa da Confindustria e Assolombarda che riunisce 84 spazi espositivi e archivi storici di grandi aziende italiane. Luoghi vivi, vitali e visitabili gratuitamente dal pubblico.
Ma che cosa sono esattamente i musei d’impresa? Sono spazi in cui un’azienda racconta la propria storia. Luoghi dove tradizione, esperienza e innovazione si fondono e dove anche l’arte è protagonista: basti pensare ai lavori del padre della pubblicità Armando Testa per Fernet Branca e per Lavazza, o a La ricerca scientifica (1961), lo straordinario mosaico realizzato da Renato Guttuso per Pirelli, che fa bella mostra di sé negli spazi milanesi della Fondazione. Sempre in Pirelli abbiamo ritrovato una campagna pubblicitaria degli anni Sessanta per un costume da bagno in gomma: era realizzata per il mercato americano e la protagonista era nientemeno che Marilyn Monroe. Poi vennero il calciatore brasiliano Ronaldo, il figlio del vento Carl Lewis, leggendario atleta vincitore di 9 ori olimpici, e il mitico calendario Pirelli, oggetto da collezione e di culto.
Arte e spettacolo, moda e design si sono intrecciati per un secolo nelle aziende storiche italiane. Artisti, scultori, pittori, fotografi hanno interagito con le aziende d’avanguardia e raccontandole raccontavano la realtà. Passato, presente e futuro convivono insomma nei musei d’impresa.
Distribuiti su tutto il territorio nazionale (anche se quasi il 40% si trova in Lombardia) i musei d’impresa comprendono le più svariate categorie: cibo, design, economia, moda, motori, ricerca e innovazione. Sono realtà giovani: come conferma una recente ricerca sulle fondazioni d’impresa realizzata da Bracco e Soliditas, il 43 per cento è nata dopo il 2005. Non tutti coincidono con un marchio: per esempio, a Legnano (Mi) c’è il museo Cozzi che è una collezione privata di vetture Alfa Romeo, totalmente slegato dalla casa madre; in Veneto, il Museo della calzatura di Villa Foscarini Rossi, proprietà del marchio Rossimoda, espone oltre 1.600 modelli di calzature femminili di lusso di tutte le marche.
Lungi dall’essere luoghi statici, ospitano eventi e mostre temporanee: è il caso del museo Salvatore Ferragamo di Firenze, dove è in corso fino a marzo 2020 la mostra Sustainable thinking che invita a riflettere sul rapporto fra industria e sostenibilità, in un’ottica sempre più necessaria di tutela ambientale. Spesso fanno rete sul territorio con altre realtà del settore, come nel progetto Motor Valley, che in Emilia Romagna unisce autodromi, collezioni private e musei d’impresa come quelli di Ducati e Lamborghini. Anche il Touring Club Italiano ha dato un suo importante contributo, realizzando diversi anni fa una guida dedicata; fornendo tramite l’Archivio storico materiali e contenuti; partecipando a eventi come la conferenza di Napoli di settembre 2018.
Giornalista e saggista, già direttore della Fondazione Pirelli, Antonio Calabrò è vicepresidente di Assolombarda, è stato direttore editoriale del gruppo Il Sole 24 Ore e vicedirettore del quotidiano. È inoltre consigliere del Touring Club Italiano e di altre società e fondazioni. Da giugno 2019 è presidente dell’associazione Museimpresa: la persona giusta per raccontare questo mondo e, con esso, l’Italia degli ultimi 150 anni.
«Musei e archivi di impresa sono straordinari veicoli di sintesi tra storia e innovazione nel nostro Paese e permettono di documentare e raccontare quanto le imprese hanno fatto e continuano a fare per la crescita economica, sociale, civile dell’Italia.
C’è un netto fil rouge: manifatture, servizi, banca, commercio hanno sempre seguito due regole: qualità e bellezza dei manufatti. In Italia abbiamo da sempre una grande vocazione internazionale, perché, per citare lo storico ed economista Carlo M. Cipolla, l’Italia “è abituata fin dal medioevo a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”.
Siamo esportatori da sempre. Questa tradizione è rimasta, rinnovata, nell’Ottocento e poi nel dopoguerra, con il boom economico.
Siamo sempre stati bravissimi meccanici, e mi riferisco anche agli elettrodomestici, non solo alle vetture. Abbiamo sempre usato meno acciaio degli altri, perché ne avevamo meno. Abbiamo copiato i mercati esteri e abbiamo fatto meglio. Abbiamo avuta una straordinaria industria della gomma, Pirelli, per non parlare di quella dell’auto. La Spina realizzata da Renzo Piano per Pirelli a Settimo Torinese è un esempio di eccellenza di fabbrica, oltre che di prodotto. Adriano Olivetti l’aveva capito: non puoi fare innovazione in un sottoscala poco illuminato.
Siamo il secondo Paese manifatturiero in Europa, subito dopo la Germania. Primeggiamo nella chimica: la plastica è un’invenzione italiana, che fece guadagnare il premio Nobel per la chimica nel 1963 a Giulio Natta. Ma quasi nessuno lo sa, o lo ricorda. La memoria è importante. Le imprese italiane hanno oggi una grande responsabilità: costruire il racconto di sé».
C’è di che essere orgogliosi. Ma se fra le imprese c’è competizione, come possono i musei d’impresa fare squadra?
«Competizione viene dal latino cum-petere, andare insieme verso obiettivi comuni. Questa è l’idea di competizione nei musei d’impresa. Le strutture sul territorio devono lavorare insieme e riscrivere il ritratto di un Paese che è ancora il più bello del mondo. Dobbiamo ritessere gli interessi comuni. Siamo il Paese – questo lo sanno in pochi – in cui per le imprese è più semplice essere sostenibili dal punto di vista ambientale. Lo conferma il dossier 2019 di Symbola, a cura di Ermete Realacci, che fotografa i primati dell’economia nazionale e che consiglio di leggere».
In alcuni casi, come per la grande industria siderurgica, ma non solo, i musei d’impresa non rischiano di essere solo nostalgici monumenti ai caduti?
«Io non credo che la grande industria sia morta. Solo, si è trasformata. Oggi esistono tante piccole imprese riunite in distretti, e questi ultimi per molti versi sono assimilabili alle grandi industrie. Il distretto della ceramica è oggi quella che ieri era la grande industria della ceramica. Ma ha la capacità di aggiornarsi e ripensarsi più velocemente. Abbiamo “piccole” imprese, dal punto di vista dei dipendenti e del fatturato, che sono leader nel loro settore nel mondo. Come possiamo considerarle davvero piccole?»
La politica ha abbandonato la grande impresa: luogo comune o realtà?
«Gli ultimi politici che sono entrati nelle fabbriche sono stati Enrico Letta e Pierlugi Bersani, quasi vent’anni fa. Poi il vuoto. Una politica che non sa cosa c’è nelle fabbriche, che non ci entra e se ci entra lo fa solo per farsi fotografare, come può sostenere il settore?»
Secondo lei quali sono i musei d’impresa che andrebbero assolutamente visitati?
«Sicuramente il museo della Liquirizia Amarelli a Rossano, in Calabria; il museo della Ducati a Bologna, e il museo Lavazza a Torino... è davvero magnifico. Anche se è più tecnica, mi permetto di consigliare anche la Fondazione Tenaris Dalmine (Bg), una testimonianza molto sofisticata della grande industria dell’acciaio».
Che progetti avete per l’immediato futuro?
«Sempre più scolaresche visitano i musei d’impresa, non solo delle scuole superiori ma anche delle primarie. Museimpresa è divenuta un punto di riferimento istituzionale: significativo l’accordo con il Ministero per i Beni e le Attività culturali, del 2017, che ha ratificato l’integrazione dei musei d’impresa nel Sistema Museale Nazionale e ha segnato il riconoscimento del museo d’impresa come modello museale contemporaneo.
Per continuare a crescere, Museimpresa ritiene fondamentale l’alleanza tra soggetti di diversa natura: pubblici e privati, imprese e istituzioni, università e centri culturali, tutti uniti in una comune progettualità, volta a recuperare, tutelare e valorizzare un patrimonio straordinario del mondo economico, che innerva la cultura materiale e scientifica italiana.
Una collaborazione con il Touring Club Italiano è indispensabile ed è caratterizzata dalla consapevolezza che la cultura, la bellezza del Paese, non sono solo arte e architettura, ma sono anche la cultura materiale dei territori e delle comunità, di cui le imprese sono un elemento fondante».