Il viaggiatore. La Capri segreta di Graham Greene

Ostile alla mondanità, per il suo soggiorno italiano lo scrittore britannico scelse un rifugio modesto

 

Per arrivare al Rosaio, la casa di Graham Greene a Capri, bisognava risalire per qualche centinaio di metri da piazza Caprile fino a via Ceselle 5. Un piccolo labirinto di sentieri di mattoni rosolati dal sole portava all’ingresso. L’aveva acquistata nel 1948 «fornita di tutto, piatti, pentole, lenzuola e via di seguito».
Era una casa modesta. Lui, ribadiva, «non sarebbe riuscito a vivere nel lusso o in un ambiente borghese». Ma nel suo animo permaneva la diffidenza verso ogni forma di possesso. Solo chi varcava il cancello di ferro battuto poteva godere del giardino segreto nascosto dai muri bianchi. Dentro c’erano al piano terra quattro camerette e al primo piano un locale unico. Un lucernario faceva spiovere la luce dal soffitto a cupola sulle piastrelle floreali del piccolo soggiorno. Tra i libri spiccava, sotto l’ottocentesca campana di vetro, una Madonna da presepe napoletano. Per tutta la sua movimentata vita Greene era rimasto un cattolico tormentato dai dubbi e dai pentimenti per le sue numerose trasgressioni. Andava a messa in una chiesa barocca, S. Stefano, dove, con il consueto miscuglio caprese di sacro e profano, una fiancata ospitava il bar Tiberio. Alto e dinoccolato, Greene aveva, ricorda Mario Soldati, «un fuoco azzurro negli occhi», che tradivano i suoi contrastanti stati d’animo. «Fammi vedere un uomo felice, e ti mostrerò l’egoismo più mostruoso e l’ignoranza più assoluta».

 

Greene beveva molto. Gli piacevano il leggero vino rosso del posto, il Corvo siciliano o il rosé di Ravello con cui accompagnava la pasta cucinata dalla donna di servizio, Carmelina. La sobrietà dello scrittore sfiorava l’avarizia. Quando andava a cena da Gemma con gli amici guardava ansiosamente l’orologio. «Non dobbiamo perdere l’ultimo autobus, se no ci tocca prendere un taxi». Ostile a ogni mondanità, oltre alla colonia inglese, sempre più piccola, Greene frequentava anche autori italiani come Mario Soldati, Alberto Moravia, Elsa Morante e Raffaele La Capria. Solo con gli anni aveva imparato a pronunciare il nome dell’isola con l’accento giusto e non con l’accento sulla i. Veniva sempre in autunno o in primavera per un tempo limitato. La mattina scriveva; nel pomeriggio faceva una breve passeggiata sul sentiero della Migliera che, attraverso la campagna, arriva fino allo spettacolare Belvedere del tuono. Secondo gli sbalzi d’umore Anacapri gli sembrava paradisiaca o opprimente. In preda alle contraddizioni tipiche del suo temperamento di tanto in tanto pensava di vendere il Rosaio. Agli amici stupiti rispondeva: «Il mio legame con Capri è strano. Non è propriamente il mio genere di posto».
Eppure, come ricorda la sua compagna di allora, Yvonne Cloetta, amava quel rifugio. Lavorava con grande concentrazione su un tavolo massiccio in un esiguo casotto di calce bianca. Perfetto per chi come lui «aveva bisogno di sentirsi come in gabbia». «Qui – confessava soddisfatto – riesco a fare in quattro settimane il lavoro per cui in un altro posto impiegherei sei mesi».