Isole del Pacifico / Polinesia, un paradiso... bio

Nel 1769 il capitano James Cook entrò nella baia di Matavai, a Tahiti, e aprì la rotta per le isole del sogno, favorendo la nascita di uno dei più potenti miti esotici. Oggi, 250 anni dopo, l’arcipelago tropicale rilancia la sua immagine e offre ai visitatori nuovi stimoli e allettanti proposte ecosostenibili

Tahiti basta a se stessa. A 250 anni dallo sbarco del capitano James Cook, le isole della felicità, il paradiso dei malati di infinito, il rifugio degli insoddisfatti della propria quotidianità e dei desiderosi di bellezza e di altrove, ha acquistato una sua dimensione, meno utopistica ma più vera e attenta a un mondo in rapida evoluzione. Usi e costumi ancestrali, mortificati da missionari e colonizzatori per molti decenni e poi rivendicati e rinverditi a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso da una presa di coscienza nazionale, hanno trovato nuova linfa, alimentati da giovani che continuano a tramandarne il senso e l’importanza senza cadere nella trappola del folklore. Allo stesso modo nuove generazioni di turisti affrontano le lunghe ore di volo non per rintanarsi in resort di lusso, uguali in tutto il mondo, ma per alloggiare in accoglienti pensioni familiari, pronti a confrontarsi con una civiltà affascinante e aperti a nuove avventure: esplorare fondali e barriere coralline dipinti di pesci multicolori, arrampicarsi su monti e picchi vulcanici, attraversare foreste e valli, fra cascate spumeggianti e fiori dalla bellezza sfacciata ed esuberante. Questo processo di adeguamento al XXI secolo non ha fatto perdere alla Polinesia neanche un grammo del suo antico fascino, ma l’ha sottratta a un eterno passato e sospinta in un oggi ricco di nuove opportunità. Le isole di Tahiti continuano a stupire e a riempire gli occhi e il cuore ma non sono più luoghi mitici, cristallizzati nell’immaginario turistico, immagini edulcorate e patinate, luoghi prigionieri della propria bellezza. Incalzate da nuovi paradisi, da altre spiagge candide su mari turchesi, questi territori francesi d’oltremare hanno cercato una propria identità e preso in mano il proprio destino, accettando anche il rischio di perdere qualcosa della loro asettica perfezione da cartolina.

 

Colonizzate da popolazioni di origine asiatica, a partire dal 1595 queste isole vennero esplorate da navigatori spagnoli, portoghesi e francesi, primo fra tutti, nel 1768, Louis Antoine de Bouganville, cui si deve quel Voyage autour du monde che diede il via all’immagine di Tahiti come di un vero e proprio Eden, dove gli uomini vivevano in innocenza, lontani dalla corruzione della civiltà. Ma fu solo un anno dopo, con il comandante James Cook, inviato dall’Inghilterra per ricercare il continente australe e osservare il transito di Venere davanti al sole (cosa che avrebbe permesso di stabilire con più accuratezza la distanza tra il Sole e la Terra, semplificando i complessi calcoli per determinare la longitudine e latitudine), che la storia si accorse di loro. Mentre il botanico Joseph Banks (lo stesso a bordo del Bounty), in parte finanziatore della missione scientifica, raccoglieva e catalogava nuove specie di piante e animali, nel suo diario di bordo Cook annotava gli usi e i costumi polinesiani e lavorava alla prima mappa d’insieme del Pacifico insieme al polinesiano Tupaia, originario dell’isola di Raiatea, sacerdote, interprete, navigatore e mediatore culturale fra indigeni e occidentali.  
Quando la nave inglese HMS Endeavour lasciò Tahiti, Tupaia si unì all’equipaggio. Nei mesi successivi guidò con maestria la nave attraverso le Isole della Società Sottovento e agevolò i contatti con i Maori di Aotearoa, in Nuova Zelanda, per morire nel 1770, sei mesi prima del ritorno della spedizione in Inghilterra. Le sue conoscenza nautiche furono rappresentate su una mappa che testimonia della capacità di Tupaia di tradurre e integrare il complesso sistema polinesiano di orientamento, basato su nozioni cosmografiche e oceanografiche, in un metodo diverso e più comprensibile agli europei.

Fu il mito artistico a costruire quello turistico. I quadri di Paul Gauguin e di Henri Matisse, i romanzi di Robert Stevenson o di Herman Melville, le poesie di Pierre Loti furono i pilastri che ressero per decenni il sogno di una Polinesia lontana e incorruttibile, dove il dolore e la morte sembravano non esistere. Paesaggi di pura bellezza per un mondo che non desiderava altro che di essere sedotto. Eterna promessa di felicità e giovinezza, dove ritrovare se stessi e la propria innocenza lontano dalle brutture e dalle disarmonie della civiltà.
Oggi selfie e smartphone rendono i turisti protagonisti del proprio viaggio, mentre lo straordinario paesaggio polinesiano rischia di non essere più attore ma solo lo sfondo ideale per immagini “instagrammabili”. Pezzi di pellicola trasparente coprono i nuovi tatuaggi made in Tahiti che si arrampicano sulle braccia e sulle gambe dei giovani occidentali in attesa di imbarcarsi all’aeroporto di Papeete mentre, in numero minore di qualche anno fa, quando i loro coetanei polinesiani decidono di farsi tatuare optano per disegni più discreti. Disegni di cui conoscono il significato, non puro ornamento, ma parole con cui il corpo racconta se stesso e la propria storia.
Grazie agli sforzi del Conservatorio artistico di Tahiti, che quest’anno festeggia i 40 anni di vita e accoglie più di 2000 allievi (divisi in quattro rami di insegnamento: arti tradizionali, arti classiche, arti visive e drammaturgia) e ai sacrifici che fanno i genitori per permettere ai propri ragazzi di partecipare all’Heiva delle scuole, la manifestazione che si svolge a luglio negli stessi giorni di quella, spettacolare, degli adulti, il Paese cerca di tramandare ai giovani il proprio patrimonio culturale. In occasione delle due Heiva a Place Vaieté, la piazza centrale di Papeete, il capoluogo noto per il suo variopinto mercato coperto e per i suoi murales, si sfidano gruppi di danzatori, cantanti e musicisti provenenti da tutto il Paese. Oggi sul bel lungomare di questa vivace cittadina, affollato di barche e yacht, i negozietti ricolmi di pareo, cappelli, tessuti fiorati, dei e cibi cinesi, retaggio delle molte comunità che ne costituiscono la realtà multiculturale, sono affiancati da gioiellerie, negozi di moda e atelier di stilisti locali. Tutta da esplorare Tahiti, di origine vulcanica, che vanta profonde vallate ricche di cascate, come quelle di Faarumai, il picco del monte Orohena, alto 2241 metri, una barriera corallina e un pugno di spiagge di sabbia nera, dove i ragazzi si cimentano con il surf. 

Scoperta nel 1769 da James Cook, tranquilla e ospitale, Huahine, con la cittadina di Fare, conserva invece molto del fascino della vecchia Polinesia. Lagune assonnate dominate da una cresta di montagne che ricordano i seni femminili, coltivazioni di angurie, vaniglia e perle alimentano l’economia degli otto villaggi dell’isola, che sfoggia tutta la propria bellezza nei suoi 30 luoghi di culto, i marae, nella baia d’Avea, con la sua spiaggia candida, e nei giardini di corallo alla fine del Motu Maeva. Originario di Huahine e considerato il padre del movimento separatista polinesiano, Pouvanaa a Oopa nel 1949 fu eletto deputato nell’Assemblea nazionale francese. Condannato a otto anni di prigione e 15 di esilio in Francia per attività sovversiva,dedicò la propria vita a combattere il colonialismo.
Secondo atollo della Polinesia per superficie e antica capitale delle Tuamotu, Fakarava è riserva della biosfera Unesco. I suoi due villaggi principali, Rotoava e Tetamanu, accolgono i circa 900 abitanti dell’isola, nota per essere un paradiso non solo sopra ma soprattutto sott’acqua. Snorkeling e diving sono infatti fra le principali attività dei turisti che, grazie alle escursioni in barca, possono raggiungere lagune dai colori straordinari, come quella di Teahatea. Imperdibile la messa domenicale nella chiesetta di Rotoava, un tripudio di canti, cappelli e corone di fiori, fra bambini dai grandi occhi scuri, ragazze bellissime che sembrano provenire da un altro pianeta e matrone sorridenti e ciarliere. Se il turismo è la prima voce dell’economia locale, le perle sono il secondo. Qui si trova l’allevamento dello scultore e disegnatore di gioielli Joachim Dariel, arrivato dalla Francia 30 anni fa e oggi proprietario anche della pensione Havaiki Lodge, impegnata in un programma di protezione della laguna e dei suoi coralli. Gli stessi programmi divulgati nelle scuole. Perché, anche senza Greta Thunberg, i giovani polinesiani lo sanno: solo salvaguardando il passato potranno assicurarsi il futuro.

 

Fotografie di Isabella Brega