di Riccardo Morri
Attribuire un nome a un luogo risponde a due esigenze: mettere ordine al processo di conoscenza e ricondurre l'ignoto al noto.
«Le parole, le parole sono importanti» diceva Nanni Moretti in Palombella rossa. «I nomi, i nomi sono importanti» gli farebbe eco un geografo. L’attribuzione di un nome a un luogo non è mai un atto neutrale e risponde a due esigenze: mettere ordine nel processo di conoscenza e ricondurre in questo modo il nuovo – o l’ignoto – al conosciuto, e, di conseguenza, segnare un’appartenenza. Fare ordine non significa rispondere solo a un intento tassonomico, cioè di osservazione e di classificazione, ma comporta anche l’assegnazione di un valore, in assoluto e relativo. Così come gli attributi di nuovo e/o sconosciuto non sono sinonimo di inesistente: in entrambi i casi, in effetti, un luogo può essere tanto nuovo quanto sconosciuto perché non appartenente fino a un dato momento al proprio ambito di interesse o area di influenza.
La mirabile descrizione di Tzvetan Todorov ne La conquista dell’America. Il problema dell’altro della bulimica attività di denominazione che accompagna Cristoforo Colombo anche solo al contatto visivo con le “nuove” terre non è solo il risultato di un’attenta osservazione ai fini della compilazione di un rapporto dettagliato e accattivante ai propri committenti (i diari!). Segnala piuttosto la necessità di rimandare a uno specifico universo culturale e di sottomettere al proprio dominio di significati, prima ancora che a quello politico-militare, dei territori “sconosciuti”. Attraverso la semplice, ma non banale, attribuzione di un nome a un luogo ci si appropria dello stesso, collocandolo all’interno di un determinato sistema di riferimento. Un sistema non solo funzionale al posizionamento del luogo sulla superficie terrestre, ma anche rispetto ad altre coordinate spazio-temporali e culturali: nella storia di breve e di lungo periodo la scelta o l’adozione di un toponimo segnala una soluzione di continuità. In caso di prima denominazione, il luogo si reifica, entra nel circuito dell’esistenza e quindi nella costruzione della biografia territoriale. La discontinuità è ancora più evidente se, viceversa, l’atto di denominazione si sovraimpone a una toponomastica preesistente: istintivamente si può essere portati a pensare che il cambiamento di nome si limiti a prendere atto di una sopraggiunta modifica della “natura” del luogo. In realtà, quando anche con la sostituzione del toponimo si intenda semplicemente registrare il cessare di una funzione d’uso (la scomparsa delle stazioni di posta con la diffusione di sistemi di comunicazione più moderni) o mutamenti nel paesaggio naturale (l’abbattimento di un bosco o la bonifica di un’area paludosa), l’atto determina immancabilmente la cancellazione di una base di conoscenza. Oggi la toponomastica è molto spesso associata alla procedura che presiede alla nomenclatura di vie e strade dopo la costruzione di nuovi quartieri. Ma anche in questo caso viene fatta tabula rasa di toponimi preesistenti, retaggio e testimonianza di un patrimonio culturale prevalentemente di carattere agricolo-rurale sopraffatto dalle forme di consumo di suolo contemporanee.
A prescindere dalle procedure amministrative, la designazione di un nome di luogo è un atto di valore culturale e politico che denota un contestuale processo di appropriazione e di sottrazione del luogo rispetto a uno specifico universo culturale che gli specialisti definiscono di territorializzazione e di deterritorializzazione. Un processo che richiede estrema cautela e profonda conoscenza geografica del territorio, sia per il recupero e per il rispetto della cultura e della memoria che i luoghi esprimono sia per modificarne, anche profondamente, l’assetto, ma in maniera coerente con le vocazioni dello stesso.
Riccardo Morri, autore del testo, è presidente Aiig e docente di Geografia a UniRoma1