Il viaggiatore. L’Amazzonia brucia…

 ...ma già da mezzo secolo: tanti anni di incendi, indignazione e disinformazione

Il pick-up stracarico s’infilò nella foresta lungo una pista di terra rossa nello Stato brasiliano di Roraima, nel nord del Paese. Zaini, scatoloni, scorte di cibo, due suore, una decina di indios e un missionario italiano. Eravamo diretti nell’area del fiume Catrimani, un affluente del Rìo Branco, dov’erano alcuni villaggi degli Yanomami, per vedere gli effetti degli incendi che da qualche tempo devastavano l’Amazzonia.
La prateria coperta d’erba dove pascolavano mandrie di bovini allo stato brado lasciò il posto a brevi tratti di foresta, che s’alternavano a radure ingombre d’alberi carbonizzati. Qualche baracca in rovina ricordava le speranze legate a quelle Transamazzonica che i bulldozer delle grandi imprese del legname aprirono nella foresta negli anni Settanta, quando il governo promise «una terra senza uomini a uomini senza terra». Mentre la strada avanzava verso ovest, un reticolo di piste minori si aprì ai lati di quella principale, e centinaia di migliaia di disperati si buttarono su quei tratturi per costruirsi una capanna, tagliare gli alberi, bruciare il sottobosco e far posto a un po’ di terra su cui vivere. Li seguirono i cercatori d’oro armati di fucili, che portarono nei villaggi indios – definiti «ostacoli naturali» – alcol, violenze e morte. Ma il terreno sotto la foresta è povero – dopo due o tre anni non cresce più nulla – e il sogno dei coloni durò poco. Dovettero spostarsi un po’ più lontano, aprire nuove piste, tagliare e bruciare altri alberi, spingendo gli indios in zone più lontane. Quando fu evidente che su quei campi sterili non era più possibile vivere, molti si arresero e, per un piatto di minestra, vendettero i loro campi esausti ai grandi fazendeiros o agli emissari delle banche che, come avvoltoi al seguito di quell’armata sconfitta, ne raccolsero le spoglie già disboscate pronte per essere trasformate in pascoli per l’allevamento del bestiame. Operazione possibile grazie alla semina estensiva di un particolare tipo di brachiaria, un’erba che attecchisce bene, ma cresce troppo in altezza diventando immangiabile per gli animali. Per questo occorre darle fuoco ogni tre anni se si vuole nutrire le immense mandrie ed esportare la carne in tutto il mondo.

Altrettanto lucrosa e devastante l’acquisizione di quelle terre ormai sterili da parte delle grandi imprese minerarie a caccia di oro, argento, piombo, diamanti, uranio, titanio e «terre rare», indispensabili per far funzionare smartphone, auto elettriche e turbine eoliche. In genere gli incendi della brachiaria non riescono ad aggredire l’umida foresta tropicale, e in Brasile sono considerati una normale pratica di un ciclo economico ricchissimo e ben collaudato. Un ciclo perverso che da parecchi decenni devasta l’ambiente e sconvolge la vita delle tribù amazzoniche, mentre l’opinione pubblica internazionale sembra non accorgersi di nulla.
Nessuno grida «l’Amazzonia brucia». L’attenzione dei media e del pubblico si risveglia invece quando, in anni particolarmente siccitosi, l’incendio dell’erba, anziché fermarsi al limite della foresta, penetra nel sottobosco per chilometri e poi ripercorre a ritroso la strada fatta alimentandosi del fogliame rinsecchito caduto nel frattempo dai rami bassi dei grandi alberi. Un avanti e indietro che alla fine riesce a incendiare gli alberi più alti. Ecco allora il pubblico scopre che l’Amazzonia brucia da settimane, e s’accende un’effimera vampata di ecologismo. In realtà l’Amazzonia brucia ogni anno da almeno mezzo secolo, ma questa «normalità» non interessa ai media occidentali, non fa notizia e ancora meno la fanno gli indios che muoiono tutti i giorni, uccisi dall’«avanzata della civiltà».
Quanto scritto è la sintesi di un reportage che pubblicai sul Corriere della Sera nel 1998. Sono trascorsi oltre due decenni, durante i quali qualcosa è cambiato, ma in peggio. Infatti sono stati vent’anni di chiacchiere, distratte e spesso disinformate.