di Raffaela Carretta
Volti e contraddizioni di un Paese di nuovo in pace
Alberi di jucca, eucalipti, aiuole ben pettinate, parecchia polvere e un cielo africano mutevole, con banchi di nuvole viaggiatrici che marciano unite, si sfarinano e poi ancora si raggruppano, come per imitare il ritmo incerto degli umani: sonnolento con improvvisi scoppi di vitalità. Addis Abeba (o Ababa), al centro dell’Etiopia, tra i grandi altopiani, a 2.350 metri di altitudine, significa poeticamente “nuovo fiore”. Il nome scelto dalla moglie di Menelik II, la volitiva regina Taitù che a fine ’800 trasferì qui la capitale. Con quasi 4 milioni di abitanti ufficiali e milioni imprecisati di individui non censiti, la città sta caoticamente ripensando se stessa. Soprattutto ora che, siglando la pace con l’Eritrea, il premier Abiy Ahmed ha vinto il Nobel per la pace e il Paese vive un suo nuovo, complicato, Rinascimento. Con 100 milioni di abitanti (nel 1935 erano appena 15) e un tasso di crescita demografica esplosivo del 2,5 per cento annuo. Con due terzi della popolazione che vive senza elettricità e l’ottanta per cento che usa ancora le fosse biologiche. C’è un gran sfrecciare di pulmini blu, i taxi collettivi stracolmi, e di autobus statali, rossi con il simbolo del leone abissino. Del passato coloniale italiano (1936-1941), non resta granché, anche se qui e là, certi logori edifici in stile modernista ne restituiscono l’eco. Il boom edilizio invece, grazie soprattutto ai capitali cinesi, è palpabile: impalcature di legno d’eucalipto, sottili come zampe di fenicottero, rivestono con la loro trina aerea i palazzi in costruzione, uno via l’altro, banche, ristoranti, centri commerciali mentre negli slum dell’enorme periferia, ogni baracca ha la sua antenna satellitare. L’onnipresente lamiera dei tetti, così brillante nel sole è arrivata settanta anni fa, cambiando tutto: i tucul, ovvero le case tradizionali di argilla e paglia (qui si chiamano gojo bet), hanno cambiato anche la pianta che da rotonda è diventata rettangolare. Lungo le strade si aggirano eleganti preti ortodossi in tunica nera e scialle bianco, il colore del sacro. Ai cancelli della sede del Patriarcato incombono due finte colombe bianche, gigantesche e minacciose, nonostante il ramoscello d’ulivo ostentato nel becco. L’impronta della Chiesa cristiano-ortodossa, approdata già nel primo secolo, è onnipresente. Al culto appartiene il 43,5 per cento degli etiopi (mentre il 40 per cento è musulmano).
Al Museo nazionale non si smetterebbe mai di fissare lo scheletro, fragile come un ricamo, di Lucy, l’ominide vissuta 3 milioni e 200 mila anni fa (ritrovata nella valle dell’Awash, Etiopia orientale). La vista di Addis Abeba dalle colline circostanti di Entoto è imperdibile. E mentre i turisti fotografano a tutto spiano, sulla strada scendono, come dotate di vita propria, gigantesche fascine di legno. Solo da vicino si vede spuntare un paio di gambe: appartengono alle raccoglitrici di legna, sotto il peso perfettamente piegate a 90 gradi. Età incerta: dai quaranta ai cento anni. Verso nord, da Addis Abeba a Bahar Dar Nel cielo un bagliore arancione sfuma tra nuvole che si allungano come baffi. In volo, l’altopiano verso nordovest è cangiante: lunghi canyon impudichi come ferite e colori che dall’ocra sfumano nel verde smeraldo, dal violaceo virano al seppia. Bahar Dar, 1.800 metri, 300mila abitanti, è capoluogo della regione degli Amara (o Hamer), dal nome dell’etnia politicamente dominante (26,9 per cento sul totale della popolazione, i più numerosi sono gli Oromo, 34,5 per cento), dalla quale provengono l’aristocrazia e i funzionari statali. Il lago Tana, il più grande d’Etiopia (3.600 chilometri quadrati) è di un marrone grigiastro non privo di una sua strana, melmosa bellezza. Ficus giganteschi, sequoie, sicomori che recitano perfettamente la parte di biblici alberi della vita, gli enormi tronchi intrecciati in volute sensuali, le possenti criniere frondose. Coppie di pellicani volano sfiorando la superficie del lago, un’enorme iguana scivola nell’acqua. Le isolette del lago sono disseminate di monasteri medievali. Per quelli di Ura Kidane Meheret e Azwa Mariam ci s’inerpica su una deliziosa stradina fiancheggiata da alberi del caffè, i chicchi ancora verdi e gonfi, e da un’ininterrotta fila di bancarelle con mamme e gran seguito di bambini: entrambi attivi nell’offerta di quadretti dipinti su pelle di capra e micro presepi in terracotta che stanno nel pugno di una mano. Le chiese dei monasteri sono giganteschi tucul circolari. I tetti di paglia, come zazzere appena uscite dalle mani del parrucchiere, vanno rifatti ogni sette anni. Gli ingressi sono separati per uomini, donne e preti. La messa dura tre ore, ma si prolunga fino a nove quando è solenne. Scene del Vecchio e Nuovo Testamento con diavoli tra le fiamme e santi con enormi occhi umidi, ricoprono interamente le pareti. I colori sono netti, compatti, violenti. Le figure di profilo, con un solo occhio, rappresentano i malvagi: incapaci di vedere la dualità di bene e male. La comunione la fanno solo vecchi e bambini, ma, saggiamente, non i giovani, troppo esposti al peccato: tanto più che non esiste la confessione.
Verso nord, da Bahar Dar a Gondar Nei campi s’intravede la figura bianca di un contadino con l’aratro di legno: schiocca in aria la frusta per incitare lo zebù, il bue con la gobba sul collo, ondeggiante come una molle piega di grasso. L’ombra delle nuvole si rincorre sulle montagne, tutto è diviso in appezzamenti coltivati: il giallo paglierino del frumento, quello carico della colza, la versione brunita del tef, il cereale autoctono con cui si fa la injera, l’acidulo pane nazionale che nei ristoranti si presenta arrotolato come un tovagliolo. Nella cittadina di Wereta, macellerie e panetterie ricordano quelle dei vecchi presepi napoletani, con la merce accatastata. Sulle baracche di fango molte immagini della Madonna, il manto azzurro spiegato e la pelle di porcellana. File di micro bar sono occupati da gruppi di maschi che bevono birra, chattano chini sui cellulari o giocano a biliardo, qui molto popolare. Signore in velo rosa incedono dondolando come regine, gli ombrellini damascati antisole. Ci si sposa giovani, le ragazze anche a 16 anni. Il matrimonio combinato è molto praticato nelle campagne, dove vive l’80 per cento degli etiopi. La dote, in capre o zebù, spetta per fortuna al maschio. Nelle strade, sottotraccia, qualcosa colpisce e non capisci perché. Poi metti a fuoco: è la sequenza incessante di facce giovani e grintose. Il 70 per cento della popolazione ha meno di 25 anni. Non ci siamo più abituati. Certo, gli anziani ci sono, e anzi, appaiono vecchissimi, con rughe vere, solchi facciali, corpi cadenti che non tentano nemmeno per un attimo di celare l’età. Si è nettamente giovani o vecchi: è la stagione di mezzo che sembra non avere diritto di cittadinanza. Gondar (270mila abitanti) si annuncia con lunghe code di bajaj, i tre ruote indiani che sulle fiancate esibiscono indifferentemente Che Guevara, Hailé Selassié o Bob Marley. A Gondar si viene per i suoi sette castelli seicenteschi: eppure nulla prepara alla bellezza struggente della cittadella imperiale dovuta all’imperatore Fasiladas. Sono spettacolari i ficus giganteschi, le lunghissime radici esposte come serpenti di pietra. S’immaginano i leoni abissini, simbolo della dinastia, aggirarsi liberamente nel parco, ora presidiato da falchi che si librano immobili, sfruttando le correnti dell’aria. Il vento corre negli alti soffitti di legno delle sale e danza con la luce sul lucido pavimento di pietra.
Verso est, da Gondar a Lalibela Lalibela è nella catena dei monti Lasta. Il cielo è senza nuvole, quasi trasparente, lontano c’è una prima fila di montagne avvolta nell’azzurro con chiazze gialle, poi una seconda e una terza e una quarta: come il disegno di un bambino quando fa le onde del mare. Temperatura ideale di 25 gradi: siamo sulla linea dell’Equatore ma l’altopiano funziona da enorme, silente, ventilatore. Il nome della città (66mila abitanti) è quello del re santo che l’ha fondata nel XII secolo (Lalibela significa “essere amato dalle api” perché mai pungiglione d’insetto ne punse la carne) con l’evidente sogno di creare dal nulla una nuova Gerusalemme. I canti incessanti dei monaci introducono alla meraviglia delle dodici chiese rupestri protette dall’Unesco: tutte scavate sotto il livello del suolo. Come se un enorme cucchiaio avesse asportato il tufo rosso in eccesso, fino alla roccia di basalto, sbozzando geometricamente gli edifici. La chiesa di S. Giorgio (Bet Giyorgis), collocata a parte rispetto al gruppo delle altre, ha una commovente pianta a forma di croce greca. La più imponente, Bet Medhane Alem (Salvatore del mondo) svetta per 11 metri e mezzo. Ci si toglie le scarpe e si entra nel chiaroscuro filtrato dalle finestre, tra preti in preghiera, pellegrini silenti, donne con neonati sul dorso. E avviluppati nello stesso velo bianco delle madri, i figli sembrano un’elegante gobba naturale: come se dopo il parto, la simbiosi dei due corpi si fosse solo spostata altrove, dalla pancia alla schiena. Verso sud: Awassa, Arba Minch, Turmi Sullo sterrato le auto schivano zebù, capre, asini votati all’immobilità. È una sfida. E la regola, tacitamente accettata, è che non occorre spostarsi, tocca agli autisti fare dribbling. Comincia la Regione delle nazioni, nazionalità e popoli del Sud, dove vivono le tribù più legate alle tradizioni. Al mercato del capoluogo Awassa, sul lago omonimo, centinaia di pescatori con reti gonfie come nuvole tagliano il pesce sotto l’occhio interessato di giganteschi marabù (una specie di cicogna) che si avventano sugli scarti. Man mano si avverte il caldo umido, il paesaggio diventa maestoso, con banani e manghi. In certi scorci improvvisi si pensa al giorno della creazione, nel punto in cui Dio dice: ecco, questo è il paradiso, crescete e moltiplicatevi. Arba Minch domina i due grandi laghi: l’Abaya e il Chamo, circondati da un tappeto impenetrabile di foresta.
Verso il villaggio di Turmi, oltre il fiume Weito si entra nella valle dell’Omo: strade di terra rossa con enormi termitai a forma di budini venuti male, corone di acacie tese al cielo come corolle forcute. L’incontro con i locali è una sfida continua alla differenza culturale. La disparità fortissima tra noi e loro ha un impatto micidiale sui buoni propositi. Qualcuno si rifugia su commenti tipo: «Che abiti meravigliosi», «Guarda che occhi», alla ricerca di qualcosa che allontani la sensazione di superiorità che, come un cattivo odore, persiste mentre pensavi di esserne immune da un pezzo. Proviamo a capire qualcosa delle loro tradizioni mentre chiediamo di scattare immagini. Ovviamente si paga, la loro richiesta è pressante e bisogna scegliere sul momento chi fotografare: tu sì, tu no, come a un’asta tra sommersi e salvati. Nel frattempo ci spiegano che nel gruppo etnico degli Arbore le donne sposate possono far crescere le trecce, mentre quelle vergini sono rasate. Tutte sono cariche di collane a grani multicolori ammassate sul seno nudo. È spettacolare l’ansa del fiume Omo vista dal villaggio dei Karo: i corpi dipinti con calce e argilla a formare misteriose geometrie, grossi cerchi celesti e rosa intorno agli occhi, corone sulla fronte. Il sesso è libero. Eppure, un bambino nato fuori dal matrimonio non può essere accettato e va abbandonato nel bosco. E lo stesso accade se durante la dentizione, l’incisivo superiore spunta prima di quello inferiore, sicuro presagio di malaugurio. Nel villaggio del popolo Hamer va in scena il “salto del toro”, fondamentale rito di passaggio dei maschi: incitato dagli amici, il prescelto per quattro volte corre sulla schiena di cinque o dieci buoi affiancati. L’attenzione però è totalmente assorbita dalle ragazze: che si agitano davanti ai maschi incitandoli a frustarle, inarcando la schiena sanguinante in attesa del colpo successivo che puntualmente arriva, fischiando nell’aria. Le ferite devono produrre ispessimenti che rimangano sulla pelle a futura memoria, testimoniando un patto: ogni scudisciata è una richiesta di protezione accolta da un maschio. L’aspetto forse più struggente è l’orgoglio con cui lo spettacolo è offerto, l’innocente inconsapevolezza dell’orrore che suscita negli spettatori. Uniti alla tribù, e tuttavia, nella vicinanza, mai così distanti.