Etiopia. In Ape sul fiume

Un filmmaker e un gruppo di giovani volontari discendono in tuk tuk la valle dell’Omo per 2.500 chilometri. Scoprono così, e condividono, la dura e autentica vita negli sperduti villaggi del Sud del Paese

Avevamo il compito di promuovere i nostri mezzi di locomozione, all’avanguardia in un Paese dove per spostarsi si usa ancora soprattutto l’asino con il carretto. Ma la motivazione si è trasformata in qualcosa di più profondo della prova tecnica su strada, grazie a Chiara Biffi, cooperante del Ciai (Centro Italiano Aiuti all’Infanzia; ciai.it) che in Etiopia opera un coraggioso progetto di scolarizzazione, e con rappresentanti del Cvm (Comunità Volontari per il Mondo; cvm.an.it/) che ci hanno mostrato gli interventi realizzati per portare acqua potabile alle migliaia di persone che devono andare a prenderla con i secchi a molti chilometri di distanza. La sfida di raggiungere il fiume Omo a bordo di tre Ape Piaggio City Passenger è diventata pretesto per produrre il mio primo documentario di viaggio, Etiopia in Tuk Tuk. Il nostro viaggio ha trovato un significato in più grazie alla sigla di un accordo di pace e alla riapertura delle frontiere tra Etiopia ed Eritrea. I tre Ape, localmente (e non solo) detti tuk tuk, ci aspettavano a Debre Zeyt, una quarantina di chilometri a sud di Addis Abeba, nuovi fiammanti, ancora imballati, brillantemente blu, un telone per tetto, aperti sui lati. Ci sono sembrati abbastanza spaziosi per suddividere l’equipaggio, che si è presentato con pochi bagagli e moltissimi sogni. Di polvere, a turno, ce ne sarebbe stata per tutti. Avevamo selezionato tra chi sapesse di cinema e di foto, ma anche chi si interessasse di antropologia, per capire le popolazioni che avremmo incontrato, e che ci fosse qualcuno che conoscesse il mondo della cooperazione: alla fine ci siamo ritrovati in 11 davanti ai nostri tuk tuk, ciascuno con il suo bagaglio di aspettative e di entusiasmo. La nostra meta era la valle del fiume Omo: un mese di tempo per percorrere 2.500 chilometri a bordo di quei tricicli a motore poco più veloci dei cammelli. Siamo partiti seguiti da una processione di curiosi. Appena fuori dalla città eccoci finalmente in viaggio: in un sorprendente silenzio, di colpo siamo immersi nel paesaggio africano dell’altopiano, fatto di luci smaglianti e arcobaleni, di gente a piedi che cammina e cammina e chissà dove va, di asini e carri, terra rossa, savane e montagne lontane, caldo e profumi.

Viaggiare così ci permette di assaporare il percorso senza essere soli: siamo vicini, possiamo comunicare tra noi senza che le nostre parole siano coperte dal rombo del motore, è quasi come viaggiare in calesse. Avevamo pianificato tutto nella stagione secca, prevedendo sterrati e polvere, e invece ci siamo trovati alle prese con acquazzoni come non ne arrivavano da anni. Ci siamo messi alla prova, non solo tra fango e guadi, vestiti fradici, tende montate e smontate gocciolando e nervosismo da pioggia imprevista, stemperato grazie alle persone di un villaggio che ci hanno portato la legna per fare il fuoco e poi sono state lì a guardarci, ridendo di noi e con noi. Abbiamo visitato una scuola in mezzo alle montagne, nella zona di Arba Minch, progetto della ong Ciai. Niente a che fare con le nostre realtà frequentate da mamme indaffarate che scaricano dall’auto i loro bambini con gadget e zainetti davanti alla soglia: qui i più fortunati impiegano da mezz’ora a un’ora per arrivare scalzi dai loro villaggi, ed è grande il lavoro per motivarli a venire. Questo posto in realtà è molto più che una scuola, perché offre ai bambini uno spicchio di infanzia spensierata e l’opportunità di salvarsi dalla strada, dove la vita conta poco ed è un attimo finire sotto le ruote dei camion che viaggiano a velocità proibitive. Guai farsi sorprendere dalla notte tornando al villaggio con il gregge: il buio arriva presto e la prudenza qui non ha voce, gli incidenti non si contano. Peggio del buio, il pericolo arriva da un consolidato traffico criminale di bambini, che dalle zone più remote vengono attirati verso le città con miraggi, per finire sfruttati e avviati a delinquere. Leggenda vuole che le proprietà eccitanti del caffè siano state scoperte da un pastore etiope, che vedeva le sue pecore diventare agitate dopo aver brucato certe bacche. Oggi l’Etiopia è uno dei maggiori produttori di caffè al mondo. La cerimonia del caffè, offerto con il pane e in tempi moderni con i pop corn, è un’emozione speciale per noi, seduti per terra davanti al fuoco, a condividere con la gente del posto le loro tradizioni e la loro identità culturale. Qui abbiamo trovato il senso del viaggio al di là dei panorami sconfinati, dei tramonti meravigliosi e delle erbe mosse dal vento; molto di più qui che nel villaggio dei Mursi, trasformati dal turismo scriteriato degli ultimi vent’anni in squallidi fantocci capaci soltanto di chiedere soldi in cambio di foto. L’arrivo al fiume Omo è solenne. Siamo privilegiati, primi al mondo a raggiungerlo con i tuk tuk. Ognuno di noi raccoglie le idee guardando l’acqua scorrere serpeggiando tra curve e anse piene di storia e di misteri. Archiviamo ricordi e scegliamo percorsi. L’Etiopia mi ha lasciato una sensazione di pace, anche quando nei villaggi che attraversavamo qualcuno brandiva il kalashnikov come un bastone da passeggio. Ogni luogo ha le sue ragioni sul valore da dare alla vita: l’apertura recente delle frontiere con l’Eritrea, di cui si incomincia a percepire la realtà tra mille singhiozzi e diffidenze, mi pare un segnale di buon auspicio dopo vent’anni di guerra e migliaia di vittime.

Foto di Ludovico De Maistre