Inchiesta. L’invasione del popolo del trolley

Da quando è nato, nel 2007, Airbnb ha rivoluzionato il mondo e il modo di alloggiare. Ora sta cambiando anche il volto delle nostre città. Forse troppo?

Lo si potrebbe chiamare il paradosso del caffé. Fino a qualche anno fa «gradisce un caffé» era il minimo sindacale che si potesse proporre a chi faceva visita in casa, fosse un amico, un parente o l’idraulico: figurarsi se si fermava a dormire. «Sono due anni che uso Airbnb (ndr, la piattaforma di affitti a breve termine) in Italia almeno due weekend al mese, e nessuno mi ha mai offerto un caffè» racconta Luca Tommasi, quasi sorpreso dalla domanda. Ma c’è di peggio. «Nell’ultimo anno non ho neanche mai incontrato di persona chi mi affittava la casa» aggiunge Barbara Benvenuti, che invece usa la piattaforma soprattuto all’estero. «Dall’Islanda alla Spagna, al momento della prenotazione mi è arrivato via mail un codice per aprire la porta. La condivisione finisce qui» spiega. Ciò nonostante Barbara usa lo stesso Airbnb. «Siamo una famiglia numerosa, ma non vogliamo rinunciare a viaggiare: questo ci permette di trovare sistemazioni spesso centrali a prezzi sostenibili, perché in una casa rispetto a un hotel possiamo risparmiare, cucinando almeno colazione e pranzo» racconta. Martina invece sta dall’altro lato, lei è una host, quella che il caffè lo dovrebbe offrire. «In realtà ospito sempre più spesso asiatici, che il caffè non lo gradiscono, preferiscono un bicchiere d’acqua», racconta. «Ma la prima cosa che facciamo è sederci in cucina e fare due chiacchiere, per conoscerci». Martina è su Airbnb da quattro anni e offre una stanza nella casa dove abita, il suo è uno dei 17.659 annunci disponibili a Milano. «Sono stata un’utente della prima ora, dal 2011 utilizzavo il sito perché viaggiando volevo vivere le città in un modo diverso, incontrando qualcuno. Quando ho perso il lavoro mi sono trovata nella necessità di integrare le entrate, perché da freelance non sempre si riesce a far quadrare i conti. Allora mi è parso naturale mettere su Airbnb una delle due stanze di casa mia» aggiunge.

 

In questa storia un caffè può sembrare un dettaglio irrilevante, ma è il simbolo tangibile che un’idea imprenditoriale – almeno nella sua retorica fondativa – nata per «ospitare e condividere» ha preso un’altra strada, dallo zaino al trolley, rumoroso compagno del turista. Perché le persone come Martina, fedeli alla filosofia originaria di ospitare per il gusto di condividere e la necessità di integrare il reddito, sono sempre meno. Circa un terzo scarso del totale, che in Italia conterebbe circa 200mila host registrati e 450mila annunci. «Il cambio sostanziale si è registrato dal 2016», racconta Sarah Gainsforth, giornalista e autrice del saggio airbnb e la città merce, che analizza gli effetti delle locazioni a breve termine sulle grandi città. «Questa storia è nata in modo un po’ naif a San Francisco, nel 2007 per iniziativa di tre ventenni, Brian Chesky, Joe Gebbia e Nathan Blecharczyk, che hanno iniziato subaffittando tre posti letti su materassi ad aria sistemati nel salotto della casa dove vivevano in giorni in cui tutti gli hotel della città erano pieni. Allora era un’idea rivoluzionaria e condivisibile». In effetti, chi può dirsi contrario all’affitto di una stanza per arrotondare, specie se permette una pratica di viaggio più condivisa che mette in relazione con gli abitanti?

Quasi inconsapevolmente i tre giovani di San Francisco sposavano un modo di viaggiare un poco hippy che però, grazie alla rivoluzione tecnologica in corso, ha aperto nuove strade nel settore dell’ospitalità. «Il fenomeno Airbnb si è sviluppato in un momento storico in cui il mondo del turismo stava cambiando velocemente» spiega Matteo Montebelli, del Centro Studi Tci. «Il turismo oggi è una pratica più accessibile: il turismo low cost – incentivato dai biglietti aerei mai così economici – ha trovato nell’ospitalità tra privati una formula coerente con i bisogni di alcune fasce di nuovi viaggiatori. Non solo: questo tipo di ospitalità casalinga ha anche risposto a un’esigenza sempre più diffusa da parte delle destinazioni di disporre di un’offerta “elastica” in grado di far fronte a una domanda che può presentare picchi importanti in coincidenza di eventi o di vere e proprie mode». Perché se per costruire un albergo servono anni, ad affittare una stanza online basta qualche minuto. E fin qui tutto bene: domanda e offerta si incontrano con soddisfazione di chi cerca un alloggio a prezzo contenuto e chi deve arrotondare. «Il punto è che le case in condivisione sono diventate sempre meno: gli affitti turistici riguardano sempre più interi appartamenti dove il padrone di casa non è presente, con conseguenze devastanti sulle opportunità abitative» sottolinea Gainsforth. Questo perché oggi la gran parte degli annunci ha poco a che vedere con la pratica della condivisione, cavallo di battaglia della sharing economy: nella grandi città italiane secondo il sito indipendente Inside Airbnb gli annunci di appartamenti non abitati, in genere mono e bilocali, sono circa il 70 per cento. Appartamenti che prima erano affittati sul normale mercato immobiliare locale.

 

La conseguenza è una nuova forma di “gentrificazione turistica”, ovvero quel fenomeno di rinnovamento di interi quartieri cittadini (spesso centrali) che porta a un aumento del costo degli affitti e degli immobili e causa la migrazione obbligata degli abitanti originari, incapaci di sostenere gli aumenti. Gli specialisti lo chiamano “effetto Airbnb” o Airbnbfication. «Ed è un problema enorme: in diverse città ha portato al rialzo dei canoni di locazione del 30 per cento e dei valori immobiliari del dieci, causando l’espulsione del ceto medio e basso dal centro» spiega Gainsforth. Da Lisbona a Barcellona, da Vancouver a Bologna gli esempi sono molteplici. Nel capoluogo emiliano c’è una endemica mancanza di alloggi per studenti; nella capitale portoghese il centrale quartiere di Alfama ormai ha solo un migliaio di residenti, contro i 20mila di 30 anni fa, ma su Airbnb solo in questa zona si trovano quasi duemila annunci, il 90 per cento sono di appartamenti interi. Certo, alcune di queste città soffrivano di una crisi abitativa precedente: spesso il combinato di mutui bassi, l’arrivo di speculatori stranieri e i mancati investimenti in edilizia popolare hanno creato una vera tempesta perfetta. «E Airbnb l’ha accelerata, perché in molte città, specie del Sudeuropa, il suo apice è coinciso con gli ultimi anni della grande crisi, per cui molti amministratori hanno visto nel turismo l’unica ancora di salvezza. Ma hanno puntato solo sui numeri e la loro crescita, senza valutare le conseguenze, senza mettere in campo una visione e un progetto» aggiunge Gainsforth. «In alcuni città ormai si è registrata una vera e propria esondazione del turismo, che sta cambiando le funzioni di interi quartieri, in genere storici e centrali, trasformandoli in zone a esclusivo uso turistico, con quel che ne consegue sulle attività commerciali, sulla pressione abitativa e sulla qualità della vita» spiega Montebelli. Non solo, la pressione si è concentrata su quelle città che già soffrivano, perché il fenomeno dei weekend lunghi si concentra in qualche dozzina di città europee assediate dall’overtourism. Le associazioni degli albergatori accusano chi ha fatto dell’affitto tramite Airbnb un’attività economica a tutti gli effetti, amministrando più alloggi. E sono tanti. Secondo i dati raccolti dai due portali InsideAirbnb e Airdna.co, la percentuale di annunci multipli, ovvero di host che affittano più di una casa, varia tra il 40 e il 70 per cento a seconda delle città.

Ma la situazione è assai più complessa. Campione indiscusso di annunci nel nostro Paese per anni è stata la superhost Bettina: a Milano gestiva oltre 230 appartamenti, a Firenze circa 155. Bettina non era un fake, come qualcuno supponeva, ma una persona in carne e ossa: una dipendente della società Halldis, leader nel mercato degli affitti a breve termine. Fondata nel 1986 da Leonardo Ferragamo con il marchio Windows on Tuscany, da allora si è specializzata in affitti a breve termine di appartamenti sia per business sia per uso turistico. Oggi gestisce per conto di privati e aziende oltre 2mila proprietà in Italia e in Europa. Appartamenti che sono veicolati su Airbnb – ora con l'account Halldis Apartments –, canale distributivo che vale solo il X per cento del loro mercato – ma anche sul sito ufficiale o su altri portali alberghieri come booking.com. Tutto perfettamente legale, perché non c’è nessuna regola di Airbnb, o dei Comuni, che ne vieti la pratica.

«Anche per noi Airbnb per noi è solo un canale», spiega Lorenzo Fagnoni, amministratore di Florence Apartments, società immobiliare che da oltre dieci anni gestisce circa 350 appartamenti nel capoluogo toscano per affitti a breve e medio termine. «Un canale con poche regole, che ha messo in crisi il settore dell’ospitalità, generando una concorrenza enorme e spesso sleale. Perché noi come altri siamo una società: paghiamo tasse e collaboratori, oltre a chi si occupa delle pulizie lavorano con noi più di 20 professionisti fiorentini che si dedicano ai turisti, ricevendoli, aiutandoli, consigliandoli come facevano i portieri degli hotel di una volta». Lo stesso rispetto delle regole assicurano altre grandi società come Halldis. «Per ogni affitto viene stipulato un contratto di gestione dell'appartamento con i proprietari, che dunque pagano regolarmente le tasse sui proventi degli affitti, così come vengono stipulati i contratti con i singoli ospiti. Questi ultimi contratti che vengono poi regolarmente registrati e fatturati a totale responsabilità nostra, nel rispetto dei requisiti fiscali, procedendo anche alla denuncia alla pubblica sicurezza delle persone che occupano le nostre case».  Allora il punto sta tutto qui, nelle regole o nella loro mancanza. Perché se è innegabile che il fenomeno Airbnb abbia cambiato in modo forse irreversibile il sistema turistico, è altrettanto innegabile che questo turismo abbia avuto effetti economici positivi cui difficilmente si può rinunciare, generando posti di lavoro che vanno dalle ristrutturazioni e l’arredo, all’indotto turistico. Ma servono regole. «E serve che politicamente si decida quale strada far prendere alle città, governando il loro sviluppo turistico senza lasciarlo all’anarchia» spiega Franco Iseppi, presidente Tci. Altrimenti è troppo facile lamentarsi dell’overtourism e della scarsità di alloggi, addossando tutto le colpe solo ad Airbnb.

Qualcosa si è mosso. In venti città italiane, per prima Genova, poi anche Firenze, Bologna e Milano – ma non Roma e Venezia –, si è giunti a un accordo per cui chi soggiorna con Airbnb è tenuto a pagare l’imposta di soggiorno, come in qualunque altra struttura ricettiva. Imposta che il portale versa direttamente al Comune, aggiungendola al prezzo della transazione. Ma questo è solo un piccolo contributo, non risolve la questione più scottante, l’emergenza abitativa, né frena l’overtourism. Un altro passo è stato fatto grazie a chi le case le affitta per mestiere, come Fagnoni. «Abbiamo contribuito a scrivere la legge sulla locazione a breve termine – spiega –. Per cui chi affitta deve pagare la cedolare secca, al 21 per cento, che dovrebbe pagare chi gestisce la locazione in qualità di sostituto d’imposta». Ma Airbnb continua a rifiutarsi di applicarla e di comunicare i dati all'Agenzia delle entrate. Anzi: ha aperto una vertenza che il Consiglio di Stato ha rinviato alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Non solo. A fine giugno il Decreto crescita ha introdotto il Codice Identificativo di Riferimento, il CIR, un codice obbligatorio per ogni struttura ricettiva, compresi gli appartamenti affittati online, istituendo una banca dati delle strutture e degli immobili destinati alle locazioni brevi, ma mancano i decreti attuativi. E comunque rappresenta più una pezza fiscale per far emergere il sommerso, che una soluzione di sistema per porre mano alla situazione.

Negli Stati Uniti le singole città, da New York a San Francisco, stanno portando avanti battaglie per limitare il numero dei giorni in cui si può affittare il proprio appartamento, tra 30 e 90, per esempio introducendo regolamenti che chiedono il consenso degli altri residenti del palazzo. In Europa si procede in ordine sparso. Così di recente Madrid ha imposto che si possa affittare il proprio appartamento per periodi brevi, ma è obbligatorio un ingresso separato e comunque oltre i 90 giorni/anno, bisogna chiedere una licenza. In città come a Lisbona non ci sono regole. A Parigi stanno implementando un piano per bandirli dagli arrondissement del centro. Ma all’interno dell’Unione europea le amministrazioni locali hanno le mani legate. La Corte di giustizia europea ha espresso un parere non vincolante sul fatto che il portale di affitti a breve termine non sia considerato fiscalmente come un’agenzia immobiliare, ma un mero fornitore di servizi digitali. Per cui varrebbe la direttiva sull’e-commerce del 2000, secondo cui i portali sono semplici vetrine di offerte altrui e non possono essere considerati responsabili per gli annunci che violano le legislazioni locali. Dal canto loro le città provano a fare fronte comune con molteplici iniziative: Firenze e Bologna si sono unite ad altre 16 città europee per fare pressione sulla Commissione europea affinché legiferi sulla questione, perché a loro dire Airbnb svolge truffaldinamente un ruolo di intermediario immobiliare a tutti gli effetti. Intanto la gentrificazione galoppa.

 

Questa in sintesi la radiografia della situazione nella sua sfaccettata complessità. Complessità che crea al turista responsabile, colui che viaggia tenendo conto della suo impatto sui luoghi visitati, un enorme dilemma, perché in fin dei conti lui è l’attore della catena che può decidere. «Premesso che siamo in un contesto di libero mercato, il turista anche in questo caso è posto davanti a una questione morale: ha la possibilità di scegliere se dormire in una struttura convenzionale come un hotel o se preferisce prenotare con Airbnb. In questo caso sta a lui cercare un appartamento intero, non avendo nessuna interazione con gli abitanti, o sceglierne uno condiviso» dice Iseppi. «Privilegiare una scelta piuttosto che un’altra è dunque questione di buon senso». Ma questo richiamo al buon senso di ognuno di noi non toglie che il problema debba comunque essere governato. «Servono regole per il settore, magari seguendo il modello proposto da Parigi e Barcellona, dove in certe zone si potrà affittare e in altre no, per tutelare le funzioni abitative e sociali dei quartieri, implementando il sistema delle licenze». Leggi sulla carta ottime, che però vanno fatte rispettare. «Perché se lasci ai Comuni l’incombenza di farlo è difficile che riescano in modo puntuale, magari solo per calcolo elettorale». Ma è necessario che un regolamento ci sia. La questione va ben oltre Airbnb sì o no, investe una scala più grande: l’idea di che futuro abbiamo per le nostre città. Che non devono essere esclusiva di chi le abita, ma neanche essere snaturate per diventare un parco giochi per turisti percorso a tutte le ore da rumorosi trolley. «Siamo convinti che sia necessario tutelare il valore e l’esistenza del fattore umano delle nostre città, ovvero la loro vitalità, la cui essenza è data proprio dal fatto di esser vissute dai loro abitanti, che le hanno rese quel che sono» conclude Iseppi. E sono anche gli unici che, se andate a casa loro, possono ancora offrirvi un caffè.