di Diogene
Arte, cultura, mostre e la poesia di una città che ogni anno si rinnova
«La società del Whist fu fondata per colmare il vuoto sociale creato dalla scomparsa della tradizionale vita di corte... e avere un luogo di incontro lontano dalla promiscuità querula e chiassosa della varia clientela del Caffè Fiorio».
Anthony L. Cardoza, Barbara Armani, Patrizi in un mondo plebeo.
La nobiltà piemontese nell’Italia liberale.
Donzelli Roma 1999
Uscendo dalla stazione di Porta Nuova, via Po non ha più l’aura ricordata nel 1935 da Giorgio de Chirico: «è Torino che ha ispirato tutta una serie dei quadri che ho dipinto dal 1912 al 1915». Suggestioni dechirichiane e richiami nietzscheani delle città silenti inizio Novecento, le rarefatte prospettive rettilinee, quinte laterali delle piazze metafisiche, con il rosso violento delle torri e dei mattoni dei palazzi a ridosso delle insegne dei caffè e dei circoli, sono svaporate per sempre.
Il rettifilo è rotto dalle insegne al neon dei parcheggi, dei sensi unici, dalle luci dei semafori e poi, verso la fine, occupato dalle bancarelle di frutta, piante grasse, fiori secchi, zucche colorate e ornamentali, artigianato di legno, bric à brac, ceramiche, dalla folla del dì di festa, anonima e indistinta.
Successive ondate migratorie hanno reso indistiguibile la tradizione piemontese dalle culture di altri continenti. Il forte odore di incenso sale dalla piccola folla dei meticci inca, con i loro visi di cuoio e legno, con lo stendardo della Cofradìa de Nuestra Señora de las Mercedes che fronteggia gli stendardi delle associazioni italo-peruviane di Torino e del Piemonte. I confratelli con le uniformi colorate dell’esilio torinese non richiamano le cappe bianche e le cappe nere della festa dell’ultima settimana di settembre a Lima, quando la Virgèn esce dal grande arco del Duomo per la processione, con il vescovo, i soldati, le bande musicali e la folla. Solo le donne e le fanciulle sono eguali, vestite di bianco, velate di pizzi, portando fiori e petali staccati da tubi di corda in cui sono infissi come piume alla testa di sacerdoti.
Qui pochi fiati e qualche ottone.
La banda suona Marìa tù, chiudendo lo sbocco verso piazzetta Reale al grumo di uomini e donne abituato alla fatica e alla pazienza. Più in là, passato l’arco che immette nella piazzetta Reale, oltre la cancellata che la divide dalla chiesa di S. Lorenzo, ragazzi con la pettorina gialla della Reale Mutua fanno ala al palco e porgono, inclinate per l’onore, le aste con le bandiere rosse dalle cinque stelle, la grande del Partito Comunista Cinese e le piccole a mezzaluna, degli operai, dei contadini, della piccola borghesia e dei capitalisti simpatizzanti del partito, simboli immarcescibili del confucianesimo marxista. L’atmosfera rarefatta dei circoli e dei caffè, il contorno di cultura e svagatezza che faceva corona alla Corte, la visione cosmopolita della Belle époque e della prima F.I.A.T. sono una cartolina, un ricordo, una retrospettiva.
La Galleria Sabauda ospita la collezione delle opere d’arte di Riccardo Gualino sopravvissute alla dispersione. Pochi visitatori si muovono tra i quadri, gli arredi e gli oggetti d’arte di questo uomo di impresa e di avventura, e di molti artisti dell’inizio del Novecento, su cui si è abbattuta la damnatio memoriae per i rovesci di fortuna delle sue imprese e per la battaglia persa con il senatore Agnelli per la conquista della Fiat e del Credito Italiano. L’alleanza con Casorati, la passione per Modigliani, il consiglio degli uomini più colti del tempo, l’amicizia con Gobetti e la sua rivoluzione liberale, l’insofferenza per la volgarità di Mussolini, del suo linguaggio e delle sue pose, gli Agnelli, la Lux Film e “il sapone di nove stelle su dieci” sono andati perduti come la centralità della fabbrica, dell’automobile, degli operai immigrati. E rivivono qui, nei filmati in bianco e nero delle gite al mare e delle feste in città, una Torino allora in gara con Parigi, New York, San Pietroburgo e Londra.