di Tino Mantarro | Fotografie Archivio Tci
Dagli Archivi del Tci riemergono le foto del reporter tedesco Kurt Lubinski, antesignano della fotografia antropologica in viaggio tra gli Oiroti delle steppe siberiane
Il suo nome era Kurt, Kurt Lubinski. Nato a Berlino sul finire dell’Ottocento, di famiglia ebraica, olandese di passaporto divenuto cittadino americano. Quegli Stati Uniti dove riparò nel 1943 per via dell’aria pessima dei tempi di guerra e dove cambiò anche cognome. Scelse un anonimo Lucas, uno dei tanti. Divenne Kurt Lucas, e finì i suoi giorni a New York City nel 1969. Con una biografia così e un nome così uno si immagina una spia venuta dal freddo, un investigatore in grisaglia, o un brillante capitano d’azienda dal passato oscuro: insomma un uomo tenace che ha attraversato il XX secolo con spavalderia e inventiva.
Invece Kurt Lubinski era un attore di teatro di scarso successo stanco dei palcoscenici tedeschi. Un tipo creativo, che alla prima occasione decise di andare in Islanda per vedere il sole di mezzanotte, rimanendo impressionato dai pescatori che mangiavano carne di squalo essiccata. Uno che decise di andar a curiosare per il mondo e divenne, più per inclinazione che per scelta, fotografo. Di quei fotografi che hanno vissuto l’epoca insieme eroica e romantica del fotogiornalismo. Perché Kurt Lubinski – che fino alla guerra viaggiava in compagnia della moglie Margot Lewin-Richter, anch’essa fotografa – fu un vero reporter cosmopolita, giacca di tweed e gambe in spalla. Una di quelle figure d’uomini avventurosi che a inizio Novecento sfruttarono la possibilità della rivoluzione dei trasporti per conoscere e far conoscere il mondo. Se ne avesse avuto la penna sarebbe potuto diventare un Graham Greene, o un William Somerset Maugham. Invece era un ottimo fotografo e nel 1938 con la casa editrice Hodder and Stoughton di Londra pubblicò This is our world, emblematica raccolta dei suoi viaggi e della sua voglia di raccontare il pianeta.
Pianeta di cui amava testimoniare un aspetto particolare: la diversità delle genti che lo popolavano. Perché la sua era una fotografia che oggi si direbbe etnografica: testimonianza visiva della varietà umana della Terra. «Mi piace meravigliare», diceva. E lo faceva mostrando per la prima volta le facce di quelle che all’epoca ancora chiamavano “popolazioni primitive”. Come nel caso di questa fotografia riemersa dall’Archivio storico del Touring Club Italiano. Un’immagine scattata tra le tribù degli Altaici dei monti Altaj nei primi anni Trenta. Un popolo di ceppo turco, che oggi vive nella Repubblica dell’Altaj in Russia, e allora veniva ancora chiamato Oiroti, prima che Stalin li accusasse di essere filo giapponesi e la parola “oyrot” fosse dichiarata controrivoluzionaria e bandita. Questa foto (pubblicata per illustrare un lungo reportage dalla Siberia di Max Wormstall sul numero di novembre di Vie del Mondo del 1950) appartiene a una serie di lavori con cui Lubinski e la moglie Margot si prefiggevano di studiare l’impatto della cultura sovietica sulle popolazioni native. Guardandola viene da pensare che quella messa sul treppiede dovesse essere di buon grado la prima macchina fotografica che i due Oiroti avessero mai visto. La macchina fotografica di Kurt Lubinski.