di Tino Mantarro | Fotografie Archivio Tci
Considerata l’emblema dell’italianità, la pasta al pomodoro è invece un piatto globale. Lo racconta lo storico e consigliere Tci, Massimo Montanari
Ci sono miti (falsi) che sono duri a morire. Quelli legati all’universo del cibo si dimostrano più pervicaci di altri, anche perché: in Italia toccateci tutto, ma non quello che mettiamo in tavola. Così, specie in anni di assoluta indigestione culinaria mediatica i miti dell’indiscussa tipicità alimentare di un piatto e delle presunte origini locali di un prodotto invero nato altrove, alimentano l’industria gastronomica e movimentano quella turistica, tutti alla ricerca: della trattoria perfetta, del chilometro zero, della ricetta autentica, dello chef di grido e dei buoni sapori di un volta. E cosa c’è in Italia di più originale, autenticamente locale, semplice e antico degli spaghetti al pomodoro, simbolo – assieme alla pizza – dell’italianità del mondo? «Un simbolo identitario da prendere con cautela», avverte Massimo Montanari, storico dell’alimentazione e consigliere Tci che nel gustoso saggio Il mito delle origini (Editori Laterza. pag. 120, 9 €) decostruisce il mito della primigenia italianità degli spaghetti al pomodoro.
«L’idea di fondo è che nessun piatto per quanto identitario affondi le sue radici esclusivamente nel proprio luogo: piuttosto i piatti sono sempre il risultato di incontri più o meno casuali, incroci meticci che costruiscono una storia che, se analizzata, porta in territori amplissimi» spiega. E i territori degli spaghetti al pomodoro vanno dalla Mezzaluna fertile, dove la pasta è nata, alla Campania che ha affinato le tecniche di trafilatura nel secolo XIX, attraverso la Sicilia dove, portata dagli arabi, in epoca medievale si è sviluppata la tradizione della pasta secca. Il pomodoro arriva dal Nuovo Mondo, così come il peperoncino. «E comunque il pomodoro viene sposato con gli spaghetti solo a metà Ottocento a Napoli, forse in collegamento con il modello spagnolo della polpa di pomodoro, perché prima il colore della pasta era bianco: burro e formaggio». Giusto il cacio è nato sul nostro territorio: nei monasteri cistercensi tra XII e XIII secolo. Eppure guai a dire al popolo dei “mangia maccheroni” che le sue origini non sono italiane. «Ma il tema delle origini è un falso problema: semplicemente non contano. Conta il punto di arrivo, ovvero l’insieme delle condizioni storiche, economiche e ambientali che portano a sviluppare un seme identitario legato a un certo piatto». Tenendo presente che l’identità è sempre viva, mutevole, ibrida e contemporanea. «Dal punto di vista storico le radici stanno indietro, l’identità è quel che io sono adesso che è frutto di molteplici storie di incontri. Per cui se devo andare a cercare le origini di un piatto o di una abitudine alimentare finisco sempre per andare a pescarle in altre culture» aggiunge Montanari. «Con il paradosso finale che le origini sono incontrollabili». Al contrario delle denominazioni di origine controllata che cristallizzano la storia in un dato momento, negando quello che è la realtà della cucina: sempre viva, in movimento.
Ma perché il cibo è un elemento così fortemente identitario? «La risposta è semplice: è l’esperienza più importante della nostra vita, non ne possiamo fare a meno, è un gesto cha facciamo tutti i giorni, ed è l’unico gesto che prevede l’incorporazione: simbolicamente è molto forte». Non solo. «Quel che mangiamo è il prodotto di un processo culturale che accompagna il cibo in tutte le fasi: dalla produzione alla manipolazione fino al consumo, con tutti gli annessi sociali e culturali. Incorporando cibo non solo acquisiamo il necessario sostentamento, ma compiamo un gesto culturale: consumiamo tutti i valori aggiunti immessi da noi stessi nel cibo». Valori che sempre più leghiamo alla scala geografica. «Oggi il marketing turistico punta molto sulla regione, in realtà nel nostro Paese sono altri i livelli significativi, legati ai territori e alle città oppure, in senso più ampio, all’identità della cultura italiana, da quella artistica alla cucina. Del resto un’evidente italianità la si rintraccia nel medioevo, negli ultimi secoli dell’età comunale e poi nel rinascimento: periodi in cui chi viveva in questi territori, pur essendo in Stati diversi, si incontrava e scambiava saperi e sapori, almeno a livello di élite, che si percepivano come partecipi di una rete di conoscenze, saperi e gusti che sono italiani».
Gusti che oggi non sembrano poter prescindere dalla pasta al pomodoro. «Appurato che gli elementi che contribuiscono alla riuscita del piatto arrivano da tutto il pianeta, questo racconta tuttavia di un tratto fondante della nostra cultura: il saper accogliere, impastare e mescolare tante culture diverse. Questo genera la ricchezza della nostra cucina che nasce dalla geografia, dalla varietà dei territori e dalla molteplicità di apporti». Di mito in mito c’è n’è un altro da sfatare: gli spaghetti non vengono dalla Cina. «È una falsa notizia che ci portiamo dietro dal 1559: quando Marco Polo va in Cina conosce già lo spaghetto e nel Milione non parla mai di pasta. Parallelamente si era sviluppata anche in Cina, anche se lì la tradizione è legata alla pasta fresca di grano tenero e alla preparazione domestica. Non è da escludere che storicamente ci siano stati dei rapporti, ma non è provato». Anche così quello che consideriamo il cibo più nostro, si rivela uno straniero nel piatto. «A dimostrazione del fatto – scrive l’antropologo Marino Niola – che la cosiddetta denominazione d’origine in realtà è sempre incontrollata».