di Diogene
A Firenze, rapiti dalla bellezza
«Immerso nella contemplazione della bellezza sublime,
l'ho vista da vicino, l'ho toccata, per così dire.
Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali
date dalle belle arti e i sentimenti appassionati.
Uscendo da Santa Croce avevo il cuore in gola, la vita in me
era come esaurita, camminavo con la paura di cadere».
Stendhal, Roma, Napoli e Firenze, 1817
A Santa Croce non si arriva più dagli Uffizi. La successione rossiniana dei viaggiatori del primo Ottocento, la possibilità della sindrome di soppraffazione della imperfezione umana per l’eccesso di bellezza dell’arte fiorentina, è inesorabilmente spezzata e atomizzata dalle code di ingresso e dai gruppi organizzati. A Santa Croce si arriva percorrendo le vie strette, con gli sporti medioevali e le botteghe trasformate in dispensatori di cibo di strada, tipizzato a Firenze nelle porchette, arrotolate e disossate come sacchi a pelo, che vengono affettate al momento, con altre code nelle botteghe più rinomate, cioè quelle segnalate nei social per i turisti dell’estremo oriente, che in cinque giorni vedono l’Europa e in tre l’Italia, nel programma food & art. La Guida Rossa Tci ci arriva da via dell’Anguillara, limite della seconda cinta muraria dove insisteva la Porta di S. Simone, «un cardine della quale è ancora visibile sulla destra, nel muro del Palazzo Cocchi-Serristori (N.1) già attribuito a Baccio d’Agnolo, ma oggi ritenuto opera di Giuliano di Sangallo (1469-74)», come elenca con cura del particolare la virgiliana compagna dell’esperto viandante.
Da lì la piazza sembra ancora il grande spiazzo sterrato fuori le mura, dove la gente si adunava per sentire le prediche di San Bernardino, come a Perugia in S. Francesco al Prato. Al centro nessuna statua, nessun monumento la ingentilisce. Anzi quello di Dante Alighieri, con la sua imponente mole, è stato spostato ai piedi dei gradini della chiesa, come se la forza di una alluvione lo avesse sradicato dalla sua centralità, per farne un ingombro, innaturale e fuori luogo. Le prediche di San Bernardino sono cessate da tempo come le feste, le stanze per la giostra e le infuocate riunione dei Palleschi che sfidarono Savonarola a subire il giudizio di Dio, camminando indenne sui carboni ardenti, nella disfida che anticipò solo di alcuni mesi il rogo (per la cronaca, il cammino di fuoco fu organizzato la vigilia della Domenica delle Palme, il 7 aprile 1498, nella Loggia dei Lanzi in piazza della Signoria, dopo il divieto di Papa Alessandro VI, ma il cielo si ruppe e un grande acquazzone mandò tutti a casa). E quindi, come dice San Tommaso d’Aquino, «quod Deus non vult, nos non debemus velle», «ciò che Dio non vuole, neppure noi dobbiamo volere». Rimane a memoria, nella categoria curiosità di cui ogni turista è ghiotto, il tondo in marmo nel Palazzo dell’Antella che segna la linea mediana del campo per il gioco del calcio.
Santa Croce è il suo interno, non tanto per la raccolta delle tombe e dei cenotafi, riuniti nell’epoca neogotica e neorinascimentale della celebrazione di una unità di nazione che non ci è mai appartenuta dopo la caduta dell’impero romano, a celebrare il popolo di eroi, santi, poeti, navigatori, colonizzatori (e non ancora trasmigratori) che ci rende orgogliosi ogni volta che vi entriamo, quanto per gli affreschi delle cappelle del presbiterio, di Giotto e dei giotteschi, quasi inarrivabili per i cordoni di canapa colorata di rosso che limitano l’affluenza del pubblico e così la vista. O per il crocifisso di Donatello, inavvicinabile per l’area riservata alla preghiera e al culto (nonostante il biglietto di ingresso), con quel corpo normolineo che, come riporta la Guida Rossa Firenze, fece dire al Brunelleschi «pareva che egli avesse messo in croce un contadino». E allora la sindrome che prende il viaggiatore all’uscita non è più quella di Stendhal.