di Elena Refraschini
Nel profondo settentrione britannico in tour tra i fari costruiti dalla famiglia che ha cambiato il destino della navigazione nel Mare del Nord e del suo più noto erede: lo scrittore Robert Louis Stevenson
Il sole sta facendo capolino sulla linea dell’orizzonte ad Arbroath, una cittadina a pochi chilometri a nord di Edimburgo. Mentre il paese dorme ancora, il porto è già brulicante di pescatori carichi di reti. John è uno di loro – cerata, stivali da pesca, barba bianca e occhi blu come un Babbo Natale del Mare del Nord – ma oggi sarà anche la mia guida attraverso le perigliose acque del Firth of Forth, uno dei tratti più mortali del litorale scozzese. John è nato qui, così come suo padre e il padre di suo padre: uomini ruvidi dalle mani arrossate dal vento e dal mare. «Nessuno che navigasse in queste acque lo faceva con cuore leggero», mi racconta con una voce baritonale che vibra quando raggiunge le erre rotiche dell’accento locale. «Coloro che vi si avventuravano di notte tendevano l’orecchio per ascoltare il rumore minaccioso delle onde su Bell Rock, sapendo che si avvicinavano alla morte». È difficile immaginarsi questo paesaggio come qualcosa di diverso da quello che mi appare ora, ovvero una calma distesa d’acqua di un blu ceruleo innaffiato qua e là dalla luce dell’alba. Eppure il Firth of Forth era un luogo maledetto per i naviganti del Settecento, l’epoca d’oro del commercio marittimo britannico. Perché a circa 17 chilometri dalla costa sorge questo scoglio sommerso, quindi invisibile, che si innalza dal fondale marino come un mattone appoggiato di taglio. Persino durante la bassa marea affiorano soltanto le estremità, mentre con l’alta marea è ricoperto da due metri d’acqua. Si è calcolato che ogni inverno Bell Rock distruggesse almeno sei vascelli. Ma quando ad affogare fu l’intero equipaggio della nave militare York nel 1803, si decise di compiere un’impresa titanica: costruire un faro su Bell Rock. Ci imbarchiamo su un peschereccio mangiucchiato dalla salsedine diretti a sud.
Ci vogliono quasi venti minuti di navigazione prima di iniziare a scorgere, tremolante come un fiammifero sospeso sulla linea dell’orizzonte, la sagoma del faro. Ma solo quando gli si è vicini si riesce davvero ad apprezzare la magnificenza di questa torre che sorge indomita sulle acque del Mare del Nord, costruita con blocchi di pietra incastrati a nido di rondine. Un obelisco di trentacinque metri che induce reverenza anche in John, mentre mi racconta le storie dei guardiani del faro solitario, vissuti tra le sue spesse mura fino all’automazione delle lanterne una ventina d’anni fa. La storia della sua costruzione ha un che di eroico e non stupisce che oggi il Bell Rock Lighthouse sia considerato dalla Bbc una delle sette meraviglie del mondo industriale, insieme alla ferrovia transcontinentale americana e al ponte di Brooklyn. Fu Robert Stevenson, nonno del celebre scrittore Robert Louis, a portare a compimento l’ambizioso progetto per conto del Northern Lighthouse Board, l’ente nazionale dei fari. Andando avanti e indietro dal porto di Arbroath con enormi blocchi di granito e portando avanti la costruzione nelle fasi di bassa marea, la sua squadra riuscì a erigere questo minareto laico in quattro anni. Dal 1° febbraio del 1811 Bell Rock – non più Cerbero ma Astrea – proietta il suo fascio di luce in questo oscuro tratto del mare.
Questa, insieme ad altre 205 torri sparse su tutto il territorio costiero, fa parte del patrimonio del Northern Lighthouse Board, che oggi le mantiene e gestisce in remoto da un elegante edificio di epoca georgiana a Edimburgo. «L’ente ha ancora come obiettivo principale quello di garantire la sicurezza della navigazione», mi spiega il presidente Mike Bullock. «Ma abbiamo recentemente istituito un ramo no profit con l’obiettivo di preservare l’eredità di questi luoghi, specialmente ora che ci sono sempre meno guardiani dei fari in vita per raccontare le storie dello spirito scozzese». A partire proprio da quella della famiglia Stevenson, che per quattro generazioni, tra il 1790 e il 1940, progettò e costruì gran parte dei fari che ancora punteggia le coste del Regno Unito. La loro valorizzazione fa parte del 2020 Year of Coasts and Waters, un’iniziativa dell’ufficio turistico nazionale che punta a mettere in rilievo le esperienze legate alle coste, ai laghi e fiumi della Scozia. Così, il viaggiatore che voglia allontanarsi dalla folla del centro di Edimburgo potrà provare l’emozione dell’andare in vela o in windsurf a Port Edgar, oppure decidere di affidarsi all’esperienza di uno skipper per assaggiare il whisky prodotto in alcune delle migliori distillerie lungo la costa orientale, in una crociera di sette giorni. In questo contesto, il board dei fari ha intrapreso un processo di ricognizione e riqualificazione delle proprietà e oggi alcuni fari sono diventati parte integrante dell’offerta turistica. I pinnacoli che svettano sui dirupi delle Ebridi esterne, per esempio, incorniciano alcuni tra i paesaggi più adatti ad avvistare cetacei e sono collegati nel percorso chiamato Hebridean Whale Trail. Altri, come quello di Ailsa Craig, sono parte di riserve ornitologiche. Ma non solo: per chi ha sempre sognato di pernottare in un faro, ora è il momento giusto. Diversi cottage, distanti solo qualche metro dalla torre, sono stati di recente restaurati con gusto e offrono il contesto ideale per dormire sospesi tra terra e acqua.
Pare che in queste località lo storm watching, l’attività squisitamente romantica (e terrificante) del rincorrere le tempeste, sia particolarmente popolare. E anche se il suo nome non ha nulla a che fare con l’ira divina, Cape Wrath potrebbe essere la più adatta allo scopo (“wrath” più che ira, sembra invece indicare una svolta, perché in quel punto le navi vichinghe viravano per tornare a casa). Lì dove si erge il faro più settentrionale della terraferma scozzese, costruito ancora da Robert Stevenson nel 1828, ha di recente aperto forse l’ostello più isolato d’Europa. Lo potrete raggiungere prendendo un piccolo motoscafo dal villaggio di Keoldale, dove lo stretto di Durness dà forma a litorali dai colori (ma non calori) caraibici. Giunti sulla sponda opposta, dovrete salire a bordo di un minivan che per un’ora metterà a dura prova i vostri muscoli lombari su strade dissestate. L’accesso è proibito alle auto private e James, uno degli otto abitanti di questa penisola spazzata dal vento, fa da autista e guida per i pochi che si spingono fin qui. Dalla punta dello sperone su cui è arroccato il faro di Cape Wrath, lo sguardo abbraccia il mare su tre lati e se si potesse volare verso settentrione, le uniche terre tra voi e la Groenlandia sarebbero le isole Faroe e l’Islanda. Le poche voci si fondono con l’ululare del vento e il mugghio delle onde che si abbattono sulle rocce a picco sotto di voi. Aggrappate a questo scampolo di terra sul confine del mondo, tre casupole bianche si raggruppano accanto all’imponente cilindro: una è la stanza dell’unico abitante del Cape Wrath Lighthouse; l’altra è il Café Ozone, dove si servono cioccolata e caffè liofilizzati. E dove una volta si trovava la sala macchine, l’uomo ha ricavato un dormitorio senza pretese pensato per chi vuole trascorrere un paio di giorni a queste latitudini estreme, allungando lo sguardo per avvistare foche e balene.
Se da un lato c’è da rallegrarsi che le istituzioni come il Northern Lighthouse Board, ma anche i privati cittadini, stiano mettendo in pratica soluzioni per far sì che i fari rimangano strutture solide e rilevanti, dall’altro ci si chiede se dobbiamo rassegnarci al fatto che la loro gloria stia tutta nel passato. Con gli strumenti di navigazione di oggi – domando alla guida – servono davvero ancora, le loro lanterne? «Quando andavo a pescare sulla mia barchetta da bambino, il bagliore solitario di Cape Wrath rischiarava la notte e serviva a rassicurarmi: tranquillo, sei ancora vivo». Con i suoi occhi azzurri si volta a guardare l’orizzonte burrascoso. «Non conosco il latino» continua nel suo inglese squarciato da sprazzi di gaelico. «Ma so quello che mi basta: in salutem omnium. Per la sicurezza di tutti, anche oggi». Il motto latino del Northern Lighthouse Board è infatti esposto nelle sale del Museum of Scottish Lighthouses a Fraserburgh. Qui si trova la più grande collezione di apparati ottici legati ai fari di tutto il Regno Unito, dagli esperimenti pionieristici di Thomas Smith – capostipite della dinastia – alle migliorie tecniche apportate da Thomas Stevenson, il padre dell’autore de L’isola del tesoro. «Dovunque io respiri aria salmastra, so di non essere lontano da una delle opere dei miei avi», scrisse Stevenson dalle Samoa nel 1880, in una lettera d’amore alle terre che aveva abbandonato in gioventù. «E quando le lanterne si accendono al tramonto lungo le coste della Scozia, sono orgoglioso di poter pensare che brillano più intensamente grazie al genio di mio padre». Un genio, quello degli Stevenson, ancora tutto da riscoprire.