Dallas "oltre" Dallas

Andrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea ForlaniAndrea Forlani

Non più solo ricchi petrolieri, soap opera, ranch e cowboy. La città texana ci svela la sua anima libera, aperta e cosmopolita. Tra archistar, arte diffusa e quartieri emergenti

Mentre Cary Grant sta cercando di sfuggire a un attacco aereo nascondendosi in una piantagione di mais, due adolescenti e un cane rincorrono un frisbee che si illumina. Intrigo internazionale di Alfred Hitchcock è sempre bello, ma quel cane ci sa davvero fare! Le sere d’estate al Klyde Warren Park, nel cuore di Dallas, vanno così. C’è chi arriva con sdraio e stuoie per godersi la proiezione di grandi classici in religioso chiasso e chi, poco distante, si diletta nelle attività fisiche più disparate: yoga, zumba, ginnastica posturale, tai chi, football americano e agility per i cani. In ogni caso c’è il tutto esaurito. Sotto scorrono veloci le macchine sulla Woodall Rogers Freeway, dieci corsie di autostrada che si immettono sotto il parco con un fruscio lontano. Intorno i grattacieli di Downtown Dallas si illuminano creando una quinta in qualche modo familiare. Forse è colpa di quell’altra Dallas, quella che negli anni Ottanta invadeva le tv nostrane con i drink di Sue Ellen e i cappelli da cowboy di J.R. legando per sempre un immaginario che si è trasformato in stereotipo: Dallas = ricchi petrolieri, intrighi di potere, ranch e fratricidi. Fratricidi a parte, per decenni Dallas è stata un accrocchio urbano che serate come quella al Klyde Warren Park nemmeno se le immaginava. «Fino a una decina di anni fa in città la gente veniva per lavorare, poi prendeva un ascensore, arrivava al garage, si metteva in macchina e tornava a casa, fuori città. D’altronde lo spazio non manca in Texas e perché stare in un appartamento quando puoi costruirti la tua bella casa di legno con giardino e mastodontico barbecue?», racconta Greg Brown, direttore dell’Architecture and Design Exchange Office. Seduto su una panchina di fronte al vecchio Dallas Municipal Building spiega una città che, per un europeo, è di primo acchito incomprensibile. «Tutto ha iniziato a cambiare quando accanto ai grattacieli di uffici sono stati inaugurati musei, teatri, spazi per la danza. Downtown è diventato così l’Arts District e la gente ha cominciato a fermarsi anche la sera. Poi dopo uno spettacolo o una mostra aumenta l’appetito e quindi è stata la volta di ristoranti e caffè. Gli ultimi a comparire sono stati proprio i condomini con appartamenti e parchi pensati per la famiglia», continua Greg. Certo, del milione e mezzo di abitanti che conta Dallas sono solo circa 20mila quelli che ora vivono in centro, ma fino a pochi anni fa erano uno sparuto migliaio.

«Quando mi sono trasferita qui da Los Angeles non potevo credere che questa città fosse così vibrante, con una nutrita comunità artistica, musei e gallerie di altissimo livello», Kristen Cole, presidente e capo creativo di Forty Five Ten, catena di showroom di design, moda, arte, è quanto di più lontano si possa immaginare da Sue Ellen. Seria, sobria e cosmopolita. Da quando è arrivata, Forty Five Ten da originale negozio texano è diventato un brand ora presente a New York e a Los Angeles. Dal suo ufficio all’ultimo piano vede The Eye (la pupilla), opera di Tony Tasset, diventata simbolo di Dallas, una scultura alta più di nove metri proprio a forma di occhio. Più tardi Kristen andrà a un’inaugurazione al Dallas Museum of Art, prima se ha tempo farà due passi nel giardino dell’adiacente Nasher Sculpture Center disegnato da Renzo Piano, e concluderà la serata assistendo a una performance di danza al Dee and Charles Wyly Theatre progettato da Rem Koolhaas (quello della Fondazione Prada di Milano per intenderci). «Da sempre la città si è affidata alle grandi firme dell’architettura internazionale», conferma Greg Brown. «Sono cinque gli edifici di I.M. Pei, genio del modernismo scomparso lo scorso anno (autore a Parigi della Piramide del Louvre, ndr), poi ci sono quelli di Philip Johnson tra cui il commovente memoriale a J. F. Kennedy, mentre tra i contemporanei oltre a Piano e Koolhaas c’è il nuovissimo Rolex Building di Kengo Kuma, il grande ampliamento del Dallas Museum of Art di Morrison Dilworth + Walls, nonché l’avveniristico Perot Museum di Thom Mayne. Insomma le archistar le abbiamo tutte o quasi». Si potrebbe pensare a una megalomania molto in stile J.R., ma a conti fatti la città ospita gli uffici di alcune tra le aziende più importanti del mondo come At&T, Exxon, American Airlines che non risparmiano nel costruirsi sedi firmate in una sorta di gara a chi ha speso di più. Il petroliere Jerry Jones per esempio, dopo essersi comprato la squadra di football dei Dallas Cowboys, ha costruito uno stadio immenso a pochi chilometri dalla città. La moglie Gene ha messo poi il carico chiedendo al consorte un ulteriore sforzo: allestire nello stadio una collezione d’arte contemporanea. Il nesso non è tra i più chiari, ma l’effetto sorpresa è innegabile. «In questo stadio entrano 30 milioni di persone all’anno per vedere una partita, un concerto o uno show. Avete mai sentito di un museo che faccia questi numeri?», ha risposto la signora Jones a chi ha mosso qualche obiezione. La collezione comprende opere di Anish Kapoor, Jenny Holzer, Olafur Eliasson, Daniel Buren, Doug Aitken... il gotha dell’arte contemporanea mondiale che, bisogna dirlo, anche nella versione sportiva non delude. Per visitare la collezione dello stadio ci sono tour ad hoc onde evitare di perdersi tra lo spogliatoio delle cheerleader, le sale riservate ai vip e una mischia in campo.

Dopo qualche giorno in questa esplosione testosteronica culturale e artistica il dubbio viene: Dallas sta facendo di tutto per farci dimenticare Sue Ellen e J.R.? O forse questi due hanno già contribuito a far scendere un velo su uno degli eventi più drammatici della storia degli Stati Uniti cui la città è inevitabilmente associata? Il sesto piano del palazzo in Elm Street, dove ha sede il museo omonimo allestito negli spazi da dove si presume il killer abbia sparato, non solo rinfresca la memoria su quel 22 novembre 1963 quando il presidente John Fitzgerald Kennedy fu ucciso mentre percorreva quella strada durante una visita in città, ma offre uno spaccato emotivo del senso di colpa che da allora Dallas ha vissuto. E dire che Lee Oswald era nato a New Orleans e non qui, i cubani venivano da Miami (una delle teorie li include nel complotto contro JFK), i comunisti dall’Unione Sovietica e, considerando anche la mafia tra i papabili dell’omicidio del secolo, pare che i mandanti fossero a Las Vegas. Insomma che sia successo a Dallas forse è stato un caso, certo è che oggi la città, considerata un tempo retrograda e razzista, quando ha potuto ha votato in massa contro Trump e questo la dice lunga su un’attitudine aperta e liberal. Tanto che l’unico candidato texano per la corsa alle presidenziali poi ritiratosi, Beto O'Rourke che è di El Paso, su alcuni argomenti era più liberal persino del più liberal di tutti, Bernie Sanders.

Per vederla dal vivo quest’anima aperta, accogliente e vibrante bisogna trascorrere del tempo a Deep Ellum, quartiere a est di Downtown dove si concentrano locali per ascoltare musica dal vivo, barbieri e tatuatori, piccoli bar dove il caffè si sceglie tra decine di tipologie, librerie indipendenti e le immancabili ciclofficine dove acquistare o noleggiare due ruote. Dopo la liberazione degli schiavi in Texas avvenuta nel 1850, molti di loro si stabilirono qui diventando una delle comunità afroamericane più numerose dello Stato. Agli inizi del Novecento il jazz e il blues resero famoso Deep Ellum e, ancora oggi, passeggiando tra strade apparentemente deserte (di giorno), giungono note misteriose da scantinati, da dietro porte chiuse e finestre sbarrate. Poi la sera tutto si anima e, in un attimo, questo angolo di Dallas a due passi dall’inevitabile cavalcavia autostradale, si trasforma in una vivace accozzaglia di risate, musica ed esultanza sportiva. Diversa, ma altrettanto travolgente, l’atmosfera del Bishop Arts District nel quartiere di Oak Cliff. Qui nelle casette di legno affacciate su strade alberate si trovano boutique di design, librerie alternative, laboratori artigianali e rigattieri che vendono il meglio della memorabilia in stile americano. «Siamo tre fratelli, tutti appassionati di carta, disegni e pittura. Abbiamo aperto il nostro showroom e laboratorio qui nel 2008 e da allora non ci siamo mai pentiti», racconta Vinsye Law mentre impacchetta una stampa incorniciata dal negozio We are 1976. Poco distante, The Wild Detectives è una libreria con caffè dove i fondatori, due ingegneri spagnoli, organizzano eventi e presentazioni, serate musicali e feste: «I libri in vendita li scegliamo insieme alla nostra comunità di lettori e amici. Persone delle quali ci fidiamo che hanno creato con noi la filosofia di questo posto», raccontano Javier e Paco. Nella casetta di legno poco distante è la filosofia outdoor a essere protagonista. AJ Vagabonds è uno di quei posti che fanno venire voglia di partire per un’avventura nei boschi selvaggi o anche solo semplicemente campeggiare perché propone tutto quello che serve per sopravvivere in mezzo alla natura senza perderci in stile. E siccome anche solo pensare allo sport fa venire fame, si recuperano calorie girato l’angolo all’Emporium Pies. Torte di mele e cannella che sono esattamente come quelle dei film anni ’50. Per le Sue Ellen del terzo millennio ne fanno una con il brandy. A Dallas ci tengono alle tradizioni.

Foto di Andrea Forlani