Orgoglio calabro

Adriano MauriAdriano MauriAndrea Bianco Dionisio Iemma

Calabria, oggi. Chi è partito – e sono mezzo milione – e chi invece resta, a difendere le tradizioni e il territorio: storie di giovani uomini e di giovani donne  che hanno fatto la seconda scelta. Dai boschi della Sila ai vigneti lungo la costa ionica, dall’agriturismo stellato di Caterina Ceraudo fino a San Floro, dove il pane artigianale di Stefano Caccavari è stato premiato come migliore d’Italia

La cipolla rossa di Tropea, il tonno Callipo, il riso Carnaroli di Sibari sono i primi nomi che hanno raccontato al resto d’Italia che la Calabria non è “quella terra del Sud dove c’è solo il peperoncino (e di conseguenza la ‘nduja)”. Perché i luoghi comuni sono duri a morire, soprattutto verso una regione come questa, distante e complessa. «Come le Marche, dovremmo declinarla al plurale, le Calabrie, perché le realtà sono tante, complesse e distanti. In mezzo ci sono le montagne, la Sila, il Pollino e strade che più che unire dividono» racconta a Touring Massimiliano Capalbo, giovane imprenditore un po’ guida e un po’ scrittore. Con Giovanni Leonardi, anni fa ha fondato il primo parco avventura della Calabria, nei boschi di Tirivolo (Cz). Un luogo eco-esperienziale che non vuole solo intrattenere, ma progetta, insegna, ospita. Insomma, va vissuto.
Secondo l’Aire, l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero, i calabresi espatriati son 413.545, quasi il 10% del totale, soprattutto diplomati e laureati. La fuga dei cervelli è drammatica, ma lo è anche la disoccupazione giovanile, che supera il 58%.
In questo scenario preoccupante si leva una voce: vantatevinne. Siate orgogliosi, di voi e della vostra terra. Di ciò che fate. Lo diceva la nonna a Franco, da ragazzino, ogni volta che faceva – o provava a fare – qualcosa di bello. Oggi Franco Laratta, giornalista, ha 61 anni e ha scelto quella frase come titolo del suo ultimo libro, in cui racconta tante piccole storie di giovani. Giovani uomini, giovani donne che fanno impresa in Calabria, dimostrando anzitutto di essere legati al territorio.

Ognuna merita di essere raccontata, e qualcuna potrebbe diventare un film, o uno spettacolo teatrale. La regia potrebbe curarla Francesco Passafaro, 38 anni, attore e figlio di attori. Tre anni fa ha riaperto il cinema teatro di Catanzaro facendo il grande salto, da attore a imprenditore. Uno sforzo anzitutto economico: «Siamo stati due anni senza sipario, non potevamo permettercelo», racconta. Ora sono una realtà apprezzata a livello nazionale. Francesco ha portato qui Leo Gullotta, Lorella Cuccarini, Pierfrancesco Favino, Oliver Stone. Tutti immortalati nelle fotografie all’ingresso del teatro. Oggi la stagione è ricchissima, tra spettacoli serali e matinée. «Le scuole vengono ogni giorno. E molte compagnie vogliono aprire la tournée qui, perché dicono che porti bene», sorride Francesco. Fare cultura sul territorio: per qualcuno una missione, un dovere, ma anche una gioia.
In quel di Montalto Uffugo, nel Cosentino, Ivano Trombino produce un amaro che è stato premiato ai World Liqueur Awards 2019, in Inghilterra, come il migliore al mondo. Porta con sé i profumi della terra: bergamotto, rosmarino, origano. Si chiama Jefferson, ma è italianissimo. E porta alto il nome della Calabria nel mondo.
A Cirò Marina c’è Massimiliano Capoano che dal 2005 gestisce l’azienda vinicola di famiglia: i baroni Capoano hanno origine antichissima, ma solo dal 1997 hanno iniziato a produrre bianchi, rossi e rosati. Venti ettari di terreno, colline affacciate sul mare dove la parola d’ordine è «qualità prima che quantità». Il cirò doc è il fiore all’occhiello, un vino così ricco di storia che era offerto ai vincitori delle Olimpiadi di Atene, nell’antica Grecia. Il nettare degli dèi non arrivava dall’Olimpo, ma dalla Calabria.

 

Poi c’è Caterina Ceraudo, una stella Michelin, alla guida del ristorante Dattilo a Strongoli (Kr), presso la cantina-agriturismo di famiglia. Allieva del grande chef abruzzese Niko Romito, è tornata qui, a due passi dal mare, tra Cirò Marina e Capo Rizzuto. Caterina valorizza le materie prime del territorio. «Felice è colui che fa felici gli altri» è il motto che accoglie gli ospiti nell’agriturismo di famiglia. Un motto, e molti sorrisi.
A San Floro c’è Stefano, che oggi ha 31 anni, e la sua è una storia, anche per come la racconta, che Passafaro potrebbe trasformare in uno spettacolo teatrale. Titolo, “La discarica che divenne mulino”. Sottotitolo, “Un territorio che non è difeso da chi ci abita è perduto”. La storia di Stefano Caccavari inizia nel 2015 quando in un bosco tra San Floro e Girifalco partono i lavori per costruire la discarica più grande d’Italia. Stefano guida la protesta e in breve si raccolgono cinquemila firme. Grazie a un cavillo legale (parte del territorio destinato alla discarica è terreno demaniale) si riesce a bloccare i lavori. Non è solo una vittoria, è una svolta. «Ho iniziato a guardare la mia terra con occhi nuovi» spiega. «Avevo un orto, ho iniziato a moltiplicarlo. Coltivavamo per conto terzi. In pochi mesi gli orti sono diventati 25, poi cento.» E la rete di persone che aveva lottato contro la discarica è diventata una comunità che condivideva la terra e i suoi frutti. «Però io volevo fare il grano», scherza Stefano, «quindi ho iniziato a seminare. Alla fine del 2015 semino il primo ettaro di grano duro Senatore Cappelli. Un amico fornaio mi spiega la differenza fra le macine industriali e quelle in pietra. E io scelgo la pietra. Anche se non si usa più. Ma noi torniamo indietro per andare avanti.»
Dal grano alla farina, al pane. All’inizio 25 pagnotte al giorno, con la farina integrale e il lievito madre perché qui si è sempre fatto così. Nonna battezza il pane Brunetto, perché è scuro, come quello integrale di una volta. Poi, la tegola: l’unico mulino a pietra della Calabria chiude.

Stefano cerca di acquistare la macina, ma non ci riesce perché il titolare si impunta. Stefano lo scrive su facebook, coinvolge la comunità degli orti, lancia quello che di fatto è un crowdfunding. Gli servono 18mila euro. Il suo appello ha 648 condivisioni in pochi giorni: arrivano 72mila euro. Quasi non ci crede.
Così è nato Mulinum, un po’ mulino un po’ panificio un po’ pizzeria. I più moderni dicono start up. «Tutto senza un euro di soldi pubblici», sottolinea. Diventa un caso nazionale, e di recente in val d’Orcia una cordata di imprenditori ha chiesto a Stefano di aprire un altro Mulinum, con lo stesso modello produttivo, la stessa filiera. Ma con una piccola differenza: gli ettari sono 600. E il progetto Mulinum sta partendo anche in Campania e in Sicilia. Nel frattempo il Brunetto è premiato come miglior pane artigianale d’Italia 2019. È il fiore all’occhiello di una produzione che comprende pani di lievito madre a bassissima acidità, con semi di zucca, girasole e sesamo, con olive e pomodorini secchi, con mandorle e curcuma. E quando lo assaggi, non assaggi solo pane, ma senti tutto il sapore di questa terra. «Nulla di tutto questo sarebbe successo se me ne fossi andato», sottolinea Stefano. Mulinum è oggi il più grande caso italiano di crowdfunding nel settore agricolo: oltre un milione e 400mila euro raccolti. «Ognuno si porta a casa un pezzetto della nostra storia, non tutta la storia: la farina, l’orto, il lievito madre... Un pezzetto della nostra storia, e il pane. Il nostro pane.» conclude Stefano. Vantatevinne, ragazzo. Vantatevinne.