di Tino Mantarro | Foto di Archivio storico Tci
La pagoda di Kyaiktiyo in Birmania sfida le leggi di gravità
La vista del sacro impone rispetto. E rispetto di certo aveva Paul Wirz, antropologo svizzero nato a Mosca, che nei primi anni Cinquanta scattò la foto a sinistra nel Sud del Myanmar, a Kyaiktiyo, nello Stato Mon. La leggenda dice che la roccia, nota come Golden Rock – un masso di granito alto sette metri che per oltre la metà della sua superficie sporge su uno strapiombo di 300 metri –, sia tenuta ancorata alla montagna da una ciocca di capelli di Siddhartha Gautama, ovvero del Buddha, che durante una delle sue peregrinazioni nelle terre dell’Asia sudorientale la donò a un eremita chiamato Taik Tha. Questi prima di morire ne fece dono al re dei Mon, Tissa, con una raccomandazione: che venisse custodita come reliquia sotto una roccia, e che la roccia stessa avesse le sembianze della testa dell’eremita.
Dice la leggenda che il re Tissa cercò a lungo una roccia adatta. Essendo figlio di un alchimista e di una principessa Naga, il re possedeva poteri soprannaturali, così la pietra con la forma perfetta fu trovata in fondo al mare. Con l’aiuto del re Thagyamin la roccia venne posizionata sulla cima di quello che oggi si chiama monte Kyaiktiyo. Sopra fu costruita una pagoda, e il luogo divenne sacro per tutti i fedeli buddhisti. Questo accadeva circa mille anni fa, prima che la Birmania fosse Birmania e gli occidentali arrivassero a quelle latitudini. Da allora la Roccia d’oro di Kyaiktiyo continua a sfidare le leggi della gravità ed è meta di continui pellegrinaggi. I fedeli partono a piedi dal villaggio di Kimpun, alla base del monte, e dopo 11 chilometri ripidi arrivano nei pressi della roccia. L’accesso al masso è riservato agli uomini, che si avvicinano a piedi scalzi pregando e sostando in meditazione, accendendo candele e incensi. Chi può permetterselo applica alla roccia una foglia d’oro e recita una preghiera, vicino al vuoto, a un passo dal baratro.
L’immagine in bianco e nero della Roccia d’oro di Kyaiktiyo venne scattata in un momento in cui la stupa era sottoposta a restauri ed è stata pubblicata su Le Vie del Mondo dell’aprile 1953 a corredo di un reportage di Paul Wirz. Specializzato nello studio delle religioni nelle popolazioni tribali dell’Asia meridionale, dai Naga dell’India orientale alle tribù della Papua Nuova Guinea, l’antropologo svizzero si era preposto di viaggiare via terra dalla Birmania alla Thailandia. Lo fece partendo dall’allora capitale Rangoon per arrivare nel cuore del Siam, a Bangkok. Rangoon nel 1950 portava ancora il nome britannico (oggi è Yangoon) ed era una città coloniale affascinante come le atmosfere di certi romanzi degli anni Trenta di ambientazione tropicale di Maugham o Simenon, e di certo meno corrosa dall’umidità e dalla decadenza di quanto non lo sia oggi. Attraversare giungle e pianure, prima in treno verso Moumain e poi a piedi, deve esser stata un’avventura non da poco. Anche se all’epoca certi percorsi erano più battuti di quanto non sia stato negli anni seguenti. Dopo il colpo di stato del 1962 del generale Ne Win il Paese si è chiuso in un auto-isolamento voluto dalla giunta militare per preservare il potere. E l’unico potere che per decenni ha fatto da relativo contraltare a quello militare è stato quello religioso. Anche se, non avendo una gerarchia ecclesiastica, il Buddhismo birmano non ha avuto figure politiche in grado di contrastare il potere dei generali. Avvolti nei loro lunghi abiti color zafferano ai monaci non è rimasto che provare a imporre quel rispetto per monasteri e luoghi di preghiera che il sacro imporrebbe. Sperando – invero con scarso successo – che il rispetto si allargasse alle persone. Con buona pace del rispetto, di facciata, del sacro.