Controcanto. Novara, antica grandeur

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Una passeggiata per Novara, a caccia di sontuose architetture

«E lo aspettava la brumal Novara e ai tristi errori, mèta ultima, Oporto».
Giosuè Carducci, Piemonte da Rime e Ritmi.

 

Certo, essere ricordata per una sconfitta (e che sconfitta) non è il massimo. Eppure quelli erano gli anni del grande rinnovamento urbanistico. Dell’Antonelli che trasformava la città medievale dei mattoni a spina di pesce, dei mattoni in linea retta, delle bifore e delle monofore, nella città moderna, di archi di pietra, di colonne, infilate ovunque, in alto, sottili in loggiati ciechi; lungo le navate del duomo, in basso, alte e possenti; e ancora nella corte che nasconde il battistero e poi, a salire, in perpendicolo, nella cupola di S. Gaudenzio, troppo stretta, troppo alta, troppo innaturale per l’equilibrio di completamento cui era destinata. Il campanile, con la copertura a pagoda, appoggiato sul cilindro finale, la guglia della cupola, fanno riconoscere la città da lontano, dal confine di Milano, che aveva separato un pezzo di Lombardia, con il biscione dei Visconti, inquadrato con l’aquila gotica dalle zampe e dal becco rosso degli Sforza, che ancora fa bella mostra di sé, sul portone del Castello.

Passata è anche l’epoca pétillant degli affari e del dinamismo della banca divenuta importante a Milano, con alla guida gli uomini della città. La Banca che portava migliaia di soci alle assemblee nel Palazzo dello sport; che aveva riempito di sé ogni parte della città, anzi, ne aveva aggiunto dei pezzi, incurante della cacofonia degli stili. Palazzo Bellini, dal portone imponente, dove Carlo Alberto abdicò per il figlio, chiuso nell’androne dalla guardiola di sicurezza della sede storica della Popolare, fronteggia la facciata anni Sessanta, un pugno al barocco, di cemento, cristallo e acciaio, degli uffici; quelli dell’arrivo delle nuove macchine di calcolo che ne riempivano le sale, con gli impiegati a riepilogare le operazioni del giorno.

La brumal Novara non doveva essere più tale quando Vittorio Emanuele II lì incontrò «nei saloni interni in raffinato rococò, con profusione di ori e stucchi» (Guida Rossa Piemonte) del palazzo Bellini, Napoleone III prima di Villafranca. Attorno la pianura acquitrinosa del Sesia e dell’Agogna, nomi di fiumi per le prefetture della Repubblica Cisalpina, quando Napoleone, reduce dal colpo di stato del dentelaire de brumaire dell’anno XVIII (9 novembre 1799) soggiornò a palazzo Bellini (e dove se no?), la fourche de prairial dell’anno XIX (20 maggio 1800) del calendario rivoluzionario. Allora l’Antonelli ancora non aveva costruito le sue chiese e i suoi palazzi e le grandi piazze, a porticato in fronte al castello e alle demolite mura spagnuole. Mura che non avevano ancora ospitato, come recita la Guida Rossa Piemonte: «il palazzo Orelli o del Mercato, realizzato in forme neoclassiche da Luigi Orelli (1817-1840)», il monumento a Vittorio Emanuele II «opera di Antonio Borghi (1881)» e i palazzi gemelli delle Assicurazioni Generali Venezia, costruiti verso il 1930. La preziosa compagna di viaggio aggiunge, socialmente impegnata, che l’edificio del Mercato «a pianta quadrilaterale è circondato da portici (sotto i quali erano solite radunarsi le mondine, in attesa di essere condotte alle risaie) sorretti da 22 colonne per lato». Ogni epoca si è sovrapposta senza pudore, senza ritegno, nel contrasto sfacciato delle immigrazioni che faceva gemello con lo sviluppo delle case a ridosso delle fabbriche nelle brume della campagna.

Già brumaio, il mese dello scorpione, il secondo mese di autunno, che ben descrive Novara: coperta dalla caligine mattutina e serale, e attorno le risaie e le file di pioppi tra i canali, le cascine che si intravvedono, dai contorni sfumati, con il quadrato della casa e delle stalle, con la torretta al centro e la cappella a lato e le baracche per le mondine, su cui il Neorealismo ha inzuppato lo sbandamento e la voglia di vivere del secondo dopoguerra. Nebbie che rendono incerti i dettagli, dando un’identità alla città che chiama ancora baluardi le mura abbattute.

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