Fiume, porto di diversità

Daniele de CarolisDaniele de CarolisDaniele de CarolisDaniele de CarolisDaniele de CarolisDaniele de CarolisDaniele de CarolisDaniele de Carolis

Capitale europea della cultura 2020, Fiume/Rijeka si rilancia guardando al suo ricco passato di città cosmopolita e puntando su cultura e turismo

Sulle prime si è dubbiosi: sarà il caso di andare avanti? Dove avanti vuol dire proseguire a camminare lungo un molo di cemento coronato da due maestose gru da carico di quelle con il gancio che si usavano un tempo negli scali merci. Quando una coppia con carrozzina oltrepassa il bar e si inoltra lungo la banchina, tra binari interrati e barche a vela ancorate, pescherecci in disarmo e pescatori con canna d’ordinanza capisci che sì, è il caso di andare.

Anche perché alla coppia si aggiungono signori con il cane, madri con figli allo stato brado, gruppi di amici che ciarlano e amanti in libera uscita. Tutti tranquilli, tutti a passeggio. Questa banchina stranamente affollata del porto di Fiume/Rijeka si chiama molo Longo: edificato intorno al 1880 allora venne battezzato molo Maria Teresa in onore dell’imperatrice. Oggi è come una passerella davanti alla città, in mezzo all’acqua. In realtà è un frangiflutti lungo 1.707 metri che difende il porto e, da quando è stato aperto ai non addetti, è diventato un nuovo corso per lo struscio serale. Ci si va per fare una passeggiata, guardare l’Adriatico che qui sembra quasi un lago, osservare i pescherecci e le barche da diporto che rientrano da Cherso e Lussino. Sullo sfondo, la notte si infila tra le montagne bianche dell’Istria e le Alpi Dinariche. Questo guardando a ponente, verso l’acqua. Se ci si siede gambe a penzoloni su di una bitta e si guarda in direzione del porto si pratica uno sport diverso: guardare Fiume come si fosse in poltrona, al cinema. Un bel guardare, con tanto di colonna sonora. Si sente il clang clang delle gru che caricano mercantili, il fischio delle sirene, le voci degli operai e lo sferragliare ritmato dei vagoni merci. A passo d’uomo, preceduti da addetti con bandiera rossa in mano, percorrono quello che altrove sarebbe il lungomare: qui è una strada condivisa da pedoni, auto e treni. I rumori che rimbalzano sull’acqua sono quelli di una città ancora industriale che abbraccia il porto. Anche se può sembrare un gioco di parole Fiume senza il suo porto non sarebbe Fiume. Lo sa il comitato organizzatore di Rijeka2020: il programma della Capitale europea della cultura ha come motto «Port of Diversity». Porto e diversità culturale, due aspetti fondanti dell’identità di questa città croata dai più ricordata solo per l’avventura di D’Annunzio e per essere un nome letto di sfuggita sulla strada delle vacanze in Dalmazia.

 

«D’Annunzio, sempre D’Annunzio: ridurre la storia di Fiume a D’Annunzio non le rende giustizia. Qui è successo tanto, soprattutto nel Novecento» sottolinea Tea Perinčić, storica e curatrice del Museo marittimo di storia del litorale croato, ospitato in quella che fu la residenza del Comandante durante il periodo della Reggenza. E in effetti Fiume è una città che nel secolo scorso suo malgrado ha vissuto più storia di quanta ne potesse sopportare. «Mio nonno era austroungarico, mio padre italiano, io iugoslavo, mio figlio croato. Quando chiedono diciamo che siamo di Fiume. E questo basta, racchiude tutto» spiega Nikola Spehar, per anni marconista, oggi guida turistica. «Qui c’è gente che senza muoversi da casa ha cambiato sette passaporti in 80 anni» prosegue Perinčić. Come? È presto detto: all’esordio del XX secolo Fiume era il porto della corona d’Ungheria all’interno dell’impero austro-ungarico, dopo la prima guerra mondiale divenne Corpo separato del nuovo Stato ungherese; dal 1919 fece parte della Reggenza italiana del Quarnaro guidata da D’Annunzio, divenne per un niente Stato Libero di Fiume fino a quando, nel 1924, fu annessa al Regno d’Italia pur non essendo stata mai prima di allora parte di qualsivoglia entità statale italiana, neanche la Serenissima. Divenne parte della Iugoslavia nel 1947 e si svegliò croata nel 1991. Ma a parte le giravolte del potere, Fiume è sempre stata una città fondamentalmente cosmopolita.

C’è un detto che in cento varianti ripetono tutti quando chiedi lumi sul passato: «Questa è una città tedesca/ungherese dove pensano in slavo e parlano italiano», spiega Giuseppe Nicodemo, friulano, attore del Dramma italiano, compagnia teatrale del Teatro Nazionale croato Zajc, l’unico stabile in lingua italiana all’estero. «Che lingua parliamo qui? Se lo chiedi a due vecchi fiumani ti dicono “alla nostra”, che vuol dire mischiando la lingua di ognuno, qualche parola che suona veneta, qualche parola tedesca, ciacavo (dialetto croato)» dice Nikola. Insomma, la gente si capisce. Per cui dire che Fiume è solo una città italiana non rende giustizia alla sua complessità antropologica. «L’italiano era la lingua franca, quella del commercio, ma la città è sempre stata di tutti, come Trieste» spiega Perinčić. E dell’attuale Rijeka con i suoi oltre 100mila abitanti Fiume non è che una parte, la centrale. Perché a Fiume un fiume c’è davvero, si chiama Eneo/Rječina, per secoli è stato il confine tra la città commerciale dall’anima italiana e l’altra, Sušak, la periferia litorale, slava. Dagli anni Venti è diventato confine tra Regno d’Italia e Regno degli jugoslavi. Oggi unisce due parti dal profilo architettonico differente, una più asburgica e una in gran parte socialista. Fondamentale per capire la città è percepire quanto le sue tante anime siano sovrapposte. Lo si vede con le architetture: anche se sbrecciati, con facciate spesso scolorite e bisognose di restauri, i palazzi d’epoca asburgica e fascista stanno uno accanto all’altro, non distanti da costruzioni socialiste, tra cui le onnipresenti torri di appartamenti, forse non di ottima fattura, ma vista mare.

 

Oggi Fiume/Rijeka ormai non è più multiculturale come un tempo: è l’eredità del Novecento, secolo dei nazionalismi. Ma continua a essere una città a suo modo plurale e irregolare. «Qui c’è una forte controcultura e una radicata tradizione di sinistra legata al passato operaio» spiega Perinčić. Così l’inaugurazione di Rijeka2020 è stata all’insegna di un’Opera industriale, spettacolo per raccontare la storia cittadina con una colonna sonora di musica industriale, in cui ogni angolo è diventato palcoscenico e alla fine tutti intonavano Bella ciao.

«Essere oltre le regole è la cifra di questa città, da sempre» spiega Voljen Korić, fiumano che lavora per Rijeka2020. «Qui convivono diverse sottoculture, fiorite negli anni della Iugoslavia. Forse perché eravamo vicini a Trieste, ma Rijeka è sempre stata una città d’avanguardia: le mode culturali, gli stili occidentali, la musica, tutto entrava da qui. Qui c’è stato il primo concerto punk del mondo socialista, e c’era un gran fermento, specie in ambito musicale» racconta Perinčić. L’atmosfera degli anni Settanta in parte sopravvive: sembra che tutti non solo ascoltino musica, ma la suonino. Di sicuro il venerdì sera le strade sono affollate di ragazzi, la maggioranza studenti dell’università. Tirano tardi tra bar e panchine, mentre al teatro Zajc – edificato a fine Ottocento sul modello di quello di Vienna, con fregi di un giovane Gustav Klimt – c’è un concerto di arie barocche e devono aggiungere sedie. «È una città che ha bisogno di rigenerarsi, di far vivere i grandi spazi legati al porto e al passato industriale. La nostra idea è farlo grazie alla cultura» spiega Morana Matković, arrivata da Zagabria per curare parte del programma di Rijeka2020. «Non serve costruire cose nuove, bastano piccoli interventi per cambiare destinazione d’uso agli spazi e donare loro nuova vita» aggiunge. Come ai magazzini di Istrawina, sede del Comitato organizzatore ma anche sala di prova teatrale e spazio per creativi. O all’antica fabbrica di zucchero davanti alla stazione, che accanto al museo di arte contemporanea ospiterà il museo della Storia della città, una biblioteca e un museo dedicato ai bambini.

I lavori sono in corso, se chiedi quando apriranno spiegano che sono le Olimpiadi. «Non tutto è pronto, ma non puoi svelare tutto subito. Rijeka2020 è un lascito per la città, non un semplice evento» commenta Morana. Del resto Fiume è un’isola ancora non turistica in un litorale turistico, una città diversa dalle altre città croate della costa, ormai parte dell’immaginario vacanziero. Anche se bastano dieci chilometri per arrivare a Opatija (Abbazia), prestigiosa località di villeggiatura balneare già all’epoca della monarchia, con la lunga passeggiata a mare, le case nobili, l’atmosfera rilassata, da riviera in cui svernare e vivere bene. Invece Fiume è una città di storia e lavoro, porto e incontri, cultura e mercato. Forse non bella, di sicuro affascinante. Di quelle che ti prendono solo se ti prendi il tempo per stare a sentire tutte le sue storie. Meglio passeggiando sul mare.

Fotografie di Daniele de Carolis