Le parole del viaggio

Stefano Faravelli

Come dare un senso ai ricordi delle nostre vacanze? Imparando a prendere appunti, organizzare le esperienze e scoprire il piacere di condividerli. Un manuale Touring insegna come farlo...

Scarpe buone e un quaderno per gli appunti, ecco cosa serve per scrivere un buon reportage. Ne era sicuro Anton Čechov che ancora prima di essere un ottimo letterato era un medico, dunque uomo di spirito pratico: uno che le cose le voleva vedere. Così a trent’anni si recò sull’isola di Sachalin, nell’estremo Oriente russo, perché voleva essere condannato tra i condannati, osservare con i suoi occhi le condizioni di vita di chi era recluso ai lavori forzati in quell’immensa colonia penale. L’isola gli sembrò un inferno senza gironi, come ha raccontato senza troppi fingimenti nel suo reportage L’isola di Sachalin. Un libro forse non troppo riuscito a livello letterario, ma di certo interessante per l’idea che aveva mosso Čechov: vivere e viaggiare per raccontarlo. «Il problema è che non posso andare da nessuna parte senza poi scriverne. Mi sembra di essermi perso l’esperienza», confessava il premio Nobel V. S. Naipaul in un’intervista alla rivista The Paris Review sull’arte dello scrivere. Come lui la pensano in tanti, solo che lui, pur essendo assai antipatico e presuntuoso, era uno scrittore da Nobel, gli altri sono (siamo) terribilmente più umani. Eppure in tanti a diverso titolo e con diverse aspirazioni, vogliono capire come dare un senso narrativo a ciò che hanno visto durante una passeggiata o una vacanza. Come organizzare i propri appunti di viaggio, come prenderli, come dare loro forma, rivivendo a distanza di tempo un viaggio per il semplice piacere – un tantino narcisistico, ammettiamolo – di condividerlo. Che è la logica con cui è stato creato Raccontare il viaggio, manuale del Touring Club Italiano curato dai docenti della Scuola del viaggio. Un libro pensato per chi vuole organizzare al meglio le proprie esperienze di viaggio e di vacanze. Dove il raccontare del titolo è declinato in «Trenta lezioni dalla scrittura all’immagine». Perché non si racconta solo con le parole, la tecnologia permette agilmente di farlo con le fotografie, con un video o riesumando la tecnica antica e assai piacevole del disegno, del taccuino di viaggio (vedi box). Anche se qui ci occuperemo della parola scritta.

«Non si impara a scrivere leggendo un libro di scrittura, così come non si impara a sciare leggendo un libro sullo sci». Affermazione condivisibile che viene dall’introduzione al manuale Come non scrivere di Claudio Giunta, professore di Letteratura italiana all’Università di Trento. Ma se le cose stanno così, ci si chiederà, servono davvero manuali di scrittura, corsi e consigli? «Servono eccome» risponde Guido Bosticco, che insegna scrittura creativa all’Università di Pavia ed è autore, con Andrea Bocconi, del capitolo La penna è un’antenna che apre Raccontare il viaggio. «A parte chi nasce già fuoriclasse (ne esistono?) per gli altri c’è una specie di modello, che funziona: la creatività o il talento vanno risvegliati, poi guidati, poi strattonati, poi messi in discussione, poi liberati. Per fare ciò serve una guida, che sia un insegnante o un manuale, che tiri e allenti le briglie, stimolando soluzioni a problemi narrativi. Esercizi che sembrano difficili da svolgere, o assurdi, in realtà obbligano a trovare soluzioni creativ

E allora manuali come Raccontare il viaggio servono proprio perché invitano ad allenarsi ed “allenare il braccio” dando utili dritte. Massime che non fa male sentire, anche se poi ognuno fa come meglio crede. Così è bene sapere che non bisogna mai fare troppo affidamento sulla propria memoria. Mai. Soprattutto se si ha intenzione di scrivere qualcosa di più di cinque righe sotto una foto pubblicata sul profilo instagram. Così come è utile scolpirsi nella mente che quel che conta davvero non è tanto l’esotismo del “dove” si va, ma il “come” lo si guarda. Perché è proprio in quel “come” che sta la differenza che rende un qualsiasi racconto piacevole, interessante e persino utile.

«Insegnare a scrivere significa insegnare a guardare – spiega Bosticco –. Nel caso della scrittura di viaggio, poi, questo è ancora più importante: lo sguardo inteso in senso ampio, comprendendo tutte le percezioni è la chiave per raccontare. Due persone possono trovarsi nello stesso luogo contemporaneamente, ma non avere la stessa idea di come raccontarlo. Uno dei due può perfino non riuscire a farlo. Perché? Forse perché non è abituato a scrivere (e qui c’entra l’allenamento) o forse perché non presta la giusta attenzione a ciò che gli sta intorno. La scrittura di viaggio è primariamente educazione allo sguardo». Esatto. erché se è vero che l’oggettività è un falso mito del giornalismo e della vita, è anche vero che del nostro ombelico interessa a pochi. E allora serve un giusto mix tra l’Io e la realtà. Perché ci siamo noi, ma ci sono anche e soprattutto gli altri. «Scrivere di viaggio – prosegue Bosticco – è attenzione agli altri, alle persone che abitano i luoghi. Poi è rispetto per ciò che si comprende e ciò che non si comprende. E infine è cura e considerazione del lettore, che vuole avere il piacere di essere là dove non è fisicamente. In fondo, per chi scrive, è una questione di responsabilità».

Responsabilità verso il presunto lettore e verso quel che si racconta. Siamo noi gli autori del racconto, e dunque quel che scriviamo è mediato dalla nostra visione del mondo, dai nostri gusti e dalle nostre attitudini, ma è altrettanto vero che gli altri vivono in un determinato contesto storico e geografico. Ed è proprio il racconto di quel contesto che chi legge va cercando perché volendo potrà riviverlo. Per cui nel raccontare un viaggio serve costruire un contesto, spiegando sempre un po’ di storia e un po’ di geografia del luogo. Per farlo occorre documentarsi, e tanto, prima di partire. Se si parte con l’idea di scriverne non si deve arrivare da sprovveduti presuntuosi (ed etnocentrici) che scoprono che i giapponesi ridono garbati e i russi bevono tanto, ma va? Bisogna leggere guide di viaggio, libri di storia e reportage, assaporare romanzi e atlanti, guardare film e documentari. Una volta sul posto bisogna dilungarsi in chiacchiere, fare domande, osservare e chiedere il perché e il per come di una data cosa. Certo, non tutti gli interlocutori hanno la capacità di illuminarci, spesso ne sanno meno di noi, soprattutto se ci siamo preparati. Ma la storia da raccontare, ancorché mediata da chi scrive, è la loro. A meno che non siate Alberto Arbasino, e allora vi potete permettere di eccedere in egocentrismo ed essere protagonisti. Quanto detto si riflette su quello che, spiegano i manuali, è il punto di vista da adottare in un testo. Nell’epoca del selfie sono tutti convinti che agli altri interessi sapere proprio di loro e dei loro pensieri, che il centro del viaggio sia il viaggiatore e il suo ombelico, non il mondo che ha visto, le persone che ha incontrato, le esperienze che ha fatto. Errore da matita rossa: così si finisce per scrivere un diario, che come tutti i diari è meglio rimanga segreto.

 

Altro errore, sempre da matita rossa, è sbrodolare: quel che conta è la selezione. Indro Montanelli era solito dire che non c’è nulla che non possa essere raccontato in trenta righe. Vale per gli articoli di un quotidiano, vale anche per i racconti di viaggio. Qualcosa si deve lasciare fuori. Raccontando un’esperienza dal momento in cui si mette il piede fuori casa a quello in cui si torna si rischia di far la fine di quelli che organizzavano mortifere serate in cui mostravano le diapositive delle vacanze, comprese quelle sfocate: si perdono amici e persino qualche parente. Non si perdono amici se si cade in un altro errore, l’imprecisione. Ma di certo non si fa una bella figura. Henry Miller diceva che un artista è un uomo che ha le antenne. Chi scrive di viaggio è uno che le ha sempre attive e con quelle raccoglie impressioni e voci, sensazioni e aneddoti. Se poi si è Henry Miller se ne fa quel che si vuole e con quelle parole si conquista Marilyn Monroe. Se invece si è comuni mortali alla tastiera ci si accontenta di usarle in modo onesto per il proprio racconto cercando, quello sì, di avere precisione nel dettaglio. Precisione nel dire che quell’uccello è un merlo e non un qualunque uccello; che l’albero è un noce e non un albero; che la persona con cui parlo si chiama Francesco o João Pedro, fa il tassista o il cameriere, ha i capelli di un colore e i vestiti di un altro, e non è uno qualunque che passa lì per caso. E lì non è un posto qualunque, ma magari è rua da Saudade, che poi è quella dove vive Pereira nel libro di Tabucchi, e non una generica via di Lisbona. Il che non vuol dire essere pedanti, ma neanche superficiali al limite dell’imprecisione. Scrivere di viaggio è un modo di fare geografia, quella attraversata per davvero, conosciuta da vicino grazie ai cartelli stradali, non su Google maps. Ci sarebbe da parlare per pagine e pagine del registro espressivo, di come iniziare un testo – l’attacco, in gergo giornalistico – e come concluderlo, di come riportare un dialogo e come descrivere il paesaggio in modo efficace, senza eccedere negli aggettivi sui tramonti chissà perché sempre immancabilmente da sogno, senza dilungarsi sullo sguardo dei bambini, senza dire mai – proprio MAI – «che il tempo sembra essersi fermato».

Proprio per questo c’è Raccontare il viaggio. Ma bisogna esser consapevoli che un manuale è solo uno spunto su cui riflettere e da cui partire, poi servono costanza ed esercizio per allenare il famoso braccio. Senza deprimersi se le cose che si scrivono, come torte e focacce di cui tutti siamo diventati nostro malgrado esperti in quarantena, non vengono come si sperava. La scrittura non è una scienza esatta, assomiglia più a un’impresa artigianale in cui quello che a qualcuno non piace ad altri può andare benissimo. E ogni pagina bianca rappresenta uno sforzo nuovo, al punto che Italo Calvino ammetteva: «Persino con gli articoli di giornale ogni volta ho lo stesso problema con l’attacco». Se aveva un problema lui, figuriamoci noi. «Fare un corso di scrittura o leggere Raccontare il viaggio serve soprattutto a migliorare la propria esperienza di viaggio – conclude Guido Bosticco –. Se pensi alla scrittura, viaggi in modo diverso, più pieno. Anche se poi non scrivi nulla di completo e organizzato. Scrivere in viaggio, con alcuni accorgimenti, significa viaggiare più in profondità».