di Tino Mantarro
L'arte del Carnet di viaggio secondo Stefano Faravelli, come viene spiegata in un capitolo di Raccontare il viaggio
Disegno e scrittura fuse nella stessa pagina alla ricerca di una nuova dimensione, che non sarà la quarta, ma certo è una bella dimensione narrativa, soprattutto quando la si sfoglia. È la dimensione del carnet de voyages, genere antico (risale al diciassettesimo secolo) ma a suo modo modernissimo che negli ultimi anni ha trovato una nuova declinazione che viaggia spesso online – come nel caso degli urban sketcher –, ma che non prescinde dalla materialità del gesto e dell’oggetto. Secondo Stefano Faravelli, che del genere è l’indiscusso maestro, i carnet di viaggio sono «un tentativo di racchiudere un mondo in un libro e di offrire a se stessi in primis il miracolo di un viaggio da fermo». Lo racconta nel capitolo La via del taccuino che conclude Raccontare il viaggio. Pagine in cui Faravelli (nelle immagini alcuni esempi dei suoi taccuini) dispensa consigli preziosi per vincere la paura e concedersi il tempo, perché ci vuole tempo, per dedicarsi a questa esperienza che è una forma di approccio alla conoscenza. Un approccio polifonico, perché il carnet è una partitura complessa, fatta di immagini disegnate, di parole scritte (in bella forma, perché la calligrafia è parte della costruzione visiva) e di apporti diversi, materiali raccolti in viaggio, frammenti di realtà incollati sulla pagina, come tessere un personale mosaico della memoria. Un ritorno, volendo, a quelle mappe di epoca medievale, in parte vere, in parte fantastiche, dove al disegno del mondo si affiancavano fantasie che sembravano vere e proprie derive meditative.