Giardini privati. Il nome delle rose

Samuele Vesuvio

A cavallo tra Umbria e Lazio le storie di cinque giardini raccontano della passione di cinque donne per la natura e l’arte. Viaggio tra peonie e ibischi alla ricerca del bello

Andare alla scoperta di giardini privati nel cuore verde d’Italia può sembrare cosa di poco conto. La questione però cambia se oltre la cortina di germogli e tappeti color smeraldo, radure, boschi e avvallamenti ci si imbatte, nascoste dietro un cancello, nelle storie delle persone che di quel verde hanno fatto la loro ragione di vita e ora lo condividono con i visitatori. Sono soggetti un po’ speciali, mani nella terra, testa illuminata dal sole, cuore vicino alla natura. Per loro coltivare un giardino significa nutrire l’anima.

Partiamo da Sudovest, dove Lazio e Umbria intrecciano i loro colori con gli stessi fili della natura e il profilo di Orvieto fa da sfondo alla Tuscia viterbese. Qui, a pochi chilometri da Civitella d’Agliano, riparato dietro una curva a gomito e un viottolo bianco si svela il regno dello scultore svizzero Paul Wiedmer, di sua moglie Jacqueline Dolder e del loro unico figlio, Samuele Vesuvio: la Serpara.
Il nome, toponimo originario del luogo, evoca scenari infernali, ma il parco di circa quattro ettari è un paradiso di armonia e silenzio. Dà voce alla vallata solo il torrente Rio Chiaro, al limitare della proprietà, che dopo un fluire di cinque chilometri si butta nel Tevere, a breve distanza. Qui piante e opere d’arte si scambiano i ruoli, senza che le une schiaccino i piedi alle altre, in un continuo, impalpabile colloquio che dura da circa quarant’anni. Da quando cioè Paul e Jacqueline s’innamorarono della tenuta e l’acquistarono nel giro di poche ore, rivoluzionando la loro vita.

Le installazioni di Paul, dal viso grande ed espressivo, sono forgiate con il ferro e fuoco e sembrano alberi di un altro pianeta: grazie a invisibili cellule fotoelettriche sputano fuoco al passaggio dei visitatori. Le piante a loro volta sono capolavori d’arte, specie il bambù gigante, importato dai viaggi della famiglia in giro per il mondo. «Nel corso del tempo – racconta Jacqueline, che si occupa del giardino – abbiamo piantato oltre ventisei varietà di questa pianta. Quando il vento fa muovere le chiome sembra che canti».
«A partire dal 1997 – spiega Paul – ho cominciato a invitare amici artisti a collaborare alla strutturazione del parco con le loro installazioni, collocate in modo da ottenere un ampliamento del senso e del significato dell’opera stessa e del giardino». Oggi se ne contano ottantanove e spuntano come germogli nel folto del verde con le loro forme bizzarre, i colori a volte sgargianti a volte neutri. Tra le firme, Daniel Spoerri, John Greer, Ralf Sander, Ursula Stalder, Pasquale Altieri. Ci sono anche le creazioni del giovane Samuele Vesuvio, cresciuto alla Serpara a pane, natura e arte contemporanea.

 

Se la creatività abita alla Serpara, la grande storia è protagonista al Mulino dei marchesi Eroli, antico opificio conosciuto sin dal Medioevo, sulle rive del fiume Nera a pochi chilometri da Narni. «Non è da tutti possedere nel proprio giardino i resti di un ponte di duemila anni fa» sorride la proprietaria della tenuta, Giovanna Eroli. E nel mentre alza lo sguardo tra camelie, rododendri, peonie, ortensie, rose, betulle, acacie, liquidambar, ginkgo bilobe, indicando il suo “albero” più imponente: la campata del ponte di Augusto fatto erigere dall’imperatore romano nel 27 a.C. per agevolare il percorso della Via Flaminia che passava qui collegando Roma a quelle che poi sarebbero diventate le Marche. Le bianche vestigia sono quel che resta della struttura romana distrutta da un’inondazione del Nera nell’anno Mille. Sorprendenti e magnifiche, pur nella rovina, sembrano appartenere a uno spazio e a un tempo tutto loro regalando suggestioni di regalità, di bellezza, di solitudine. Devono aver provato le stesse sensazioni gli artisti che le hanno ritratte, tra tutti Jacob Hackert e Jean Baptiste Camille Corot (i cui dipinti raffiguranti il ponte sono conservati al Museo del Louvre e alla Galleria nazionale del Canada), transitando in questi luoghi tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 per completare la propria formazione e conoscere i luoghi del mito.

In nome delle rose è stato creato invece il giardino di Helga Brichet: un polmone di colori cui si approda dopo aver percorso una stradina in terra battuta tra i ginepri e le ginestre del Comune di Gualdo Cattaneo, in provincia di Perugia. La dimora del 1300 con annessa una cappellina dedicata a S. Maria della Portella con affreschi del 1400, è avvolta dal verde nel più assoluto silenzio. Helga, sudafricana, si muove come una vestale tra il camino in pietra e le sue piante spalmate su oltre quattro ettari. Abita qui da circa 40 anni insieme al marito belga André e in questo arco di tempo ha piantato oltre 500 varietà di rose, in prevalenza provenienti dalla Cina e dall’India: quelle che più di altre hanno influenzato l’ibridazione. Le vedi crescere libere e selvagge arrampicate sui tronchi degli alberi e intrecciate come liane agli ulivi. E pensi alle tue roselline in vaso, che sembravano bellissime e ora, di fronte a tanta magnificenza, appaiono rachitiche.
Le rose, Helga, le conosce sin da bambina, una passione che le ha trasmesso la nonna Abdà a Cape Town e che l’ha portata a diventare fino a qualche anno fa presidente della Federazione mondiale delle Società della Rose. Ora, con un proprio comitato all’interno dell’organismo internazionale, gira il mondo per cercare e introdurre in Italia vecchie e nuove specie. Una varietà di rosa dai fiori doppi e grandi è stata perfino dedicata al marito, come Helga funzionario della Fao a Roma. André si ammalò a 42 anni (oggi ne ha 83) e così la coppia dovette cambiare vita, ricominciando da questo spicchio di Umbria e da una passione mai sopita, rinata dal dolore. «Le mie preferite – racconta Helga dagli incredibili occhi azzurri – sono le Rosae Chinensis, arrivate in Europa nel Settecento per l’intensificazione degli scambi commerciali tra il Vecchio Continente e il Sudest asiatico. Sono le rose più antiche a oggi conosciute, fioriscono tutto l’anno grazie al gene della rifiorenza, hanno fusto sottile, poche spine, foglie piccole e semilucide e fiori brillanti».

Il giardino della fiorentina Gabriella Lizza nasce invece da un libro scovato in una libreria remainder’s a Roma. «Leggendolo rimasi folgorata da Vita Sackville-West, scrittrice, poetessa, decana del giardinaggio inglese», dice Gabriella, viso abbronzato, occhi chiari come il cielo di Monticello, grumo di case arrampicato sulle colline di Todi. «Mio marito Gerardo, scenografo e pittore, cercava una dimora per lavorare tranquillo, così ci arrampicammo fin quassù e non siamo più scesi». E mentre Gerardo lavorava, Gabriella cominciò a piantare nel suo giardino di circa due ettari, rose Tea, narcisi, forsizie, melograni, betulle, limoni, iris, lavande, euphorbie, e decine di altre specie. Gerardo ha cominciato a collaborare con lei, dando al verde forme scenografiche. Ecco prendere forma negli anni un laghetto, un porticato in pietra, minuscoli sentieri tra le siepi di cotoneaster, l’area degli alberi da frutta, un boschetto di meli, una pergola di viti, una piscina e l’atelier di Gerardo dove nascono, di fronte a dorati tramonti, pennellate astratte di paesaggi.

Il “giardorto” è invece la specialità di un’altra maestra dal pollice verde, Daniela Fè d’Ostiani, deus ex machina del suo giardino, Il Maletto, affacciato sul lago Trasimeno a Sant’Arcangelo di Magione, in provincia di Perugia. Da 40 anni attrazione sopraffina del territorio. «Si tratta di un orto decorativo con disegno all’italiana di fiori e ortaggi – spiega la maga della botanica (citata da numerosi libri quali Gli orti felici di Paolo Pejrone, The best gardens in Italy di Kirsty McLeod e Robin Lane Fox, Folli giardinieri, storie d'amore e di verde di Maury Dattilo) – che ben si lega con lo stagno di piante acquatiche, il prato naturale fiorito, il boschetto di roverelle, il pianoro di ulivi, la pergola di 30 metri di glicine e quella di uva e rose».
Anche Daniela ha gli occhi chiari, di quel verde tenue che hanno le foglie delle primule. Sarà perché sono i giardini a coltivare le persone, imprimendo loro il colore della natura di cui facciamo parte.