Lazio. c'è un Moai vicino a Viterbo

Centro di origine etrusca, in posizione panoramica e Bandiera Arancione Tci, Vitorchiano ha anche un asso nella manica: una statua dell’isola di Pasqua costruita qui in Italia dagli abitanti di Rapa Nui

Arancione, sospeso e fedele nei secoli. Tre aggettivi e tre asterischi nelle guide turistiche per l’antico borgo di Vitorchiano, al centro dell’Etruria, nel Viterbese. È una delle Bandiere Arancioni Tci. È abbarbicato mani e piedi a uno scoglio di tufo che s’impenna su due orridi selvaggi; eppure a guardarlo da lontano dà l’impressione di solcare l’aria, tanto sembra sospeso sulle forre che l’avvolgono. Molto vicino a Viterbo (sette km), più vicino a Roma. Fedele a chi?
È una vecchia storia di almeno otto secoli fa, quando Vitorchiano chiese aiuto a Roma per resistere all’ennesimo attacco di Viterbo. I rinforzi arrivarono e gli abitanti del borgo per riconoscenza rimasero fedeli al Campidoglio vita natural durante, tanto da fregiarsi del titolo SPQR nello stemma municipale e da ottenere il privilegio di partecipare in pompa magna ad alcune manifestazioni capitoline, come l’inaugurazione delle XVII Olimpiadi del 1960. Il drappello di rappresentanza di Vitorchiano, ufficialmente costituito nel 1520, è composto da un Conestabile (mastro di casa) e nove famigli col titolo di “fedeli”, a guardia simbolica del Palazzo dei Conservatori. Indossano costumi giallo-rossi griffati, secondo una generosa attribuzione, da Michelangelo: berretto di raso nero con piuma, casacca e calzone sotto il ginocchio rosso sangue ornati da fasce d’oro, maniche e calze gialle, scarpe nere con fibbia. Una lapide in Campidoglio riporta la scritta “Vitorchiano fedele del Popolo romano”. Su alcune porte e architravi del centro storico del paese vediamo ancor oggi scolpite frasi del tipo Deo Romaeque esto fidelis (“Sii fedele a Dio e a Roma”).

 

Entriamo nel borgo, possibilmente in punta di piedi. Mura trecentesche lo proteggono nel lato più debole dove non ci sono precipizi a difesa. Il toponimo Vicus Horclanus denuncia origini etrusche, forse riferite a un tempio dedicato alla dea Orchia. Superata la Porta Romana, unica via di accesso in entrata e in uscita, si presenta uno scenario d’altri tempi, fatto di palazzi aristocratici e modeste casette con facciate di pietra tra un meandro di viuzze e piazzette su cui si affacciano cantine scavate nel tufo, consunti “profferli” (scale esterne), archi a tutto sesto e spettacolari belvedere, uno dei quali fa intravedere, tra la rigogliosa vegetazione, il santuario campestre di S. Michele (patrono del paese), edificato nella metà del Trecento dopo l’apparizione dell’arcangelo sul monte Gargano. Alla processione a lui dedicata – che si snoda da Porta Tiberina fino alla chiesa il sabato successivo all’8 maggio  – partecipano la banda musicale, il clero, le confraternite e la statua lignea del Santo. Per l’occasione vengono preparate le ciambelle all’anice di San Michele.
Se ci mettiamo a tavola in una delle trattorie del posto o degli immediati dintorni dobbiamo assaggiare i cavatelli, sorta di spaghettoni acqua e farina tirati a mano e conditi con salsa di pomodoro fresco, aglio, olio, peperoncino e finocchio selvatico, e una spolverata di pecorino romano. La loro sagra si tiene il primo finesettimana di agosto.

Nella città alta, all’interno della chiesa di S. Maria Assunta si apprezzano un fonte battesimale e un pergamo del XVI secolo; in quella di S. Amanzio, compatrono del paese, un’Annunciazione del 1514. Tra i vicoli ci si imbatte anche nella casa dove visse esiliata nel 1250 Santa Rosa da Viterbo, quella per intendersi della famosa Macchina. Qui avrebbe compiuto alcuni miracoli come ridare la vista a una bambina cieca di nome Delicata e convertire un’eretica.  
Fuori delle mura castellane, in largo padre Salimbeni, lungo la strada per Grotte Santo Stefano, c’è un Moai alto oltre sei metri scolpito alla fine degli anni Ottanta in pietra locale da un gruppo di abitanti dell’isola di Pasqua. La figura, a mezzo busto, ha il volto accigliato, il naso rincagnato, il mento squadrato, uno strano cappello a dado di color rossiccio con il cupolino schiacciato e un accenno di pancetta sul tronco affusolato. Dicono che toccargli l’ombelico porti fortuna.
Da non perdere, alla periferia del paese lungo la strada per Viterbo, il ciclo di affreschi di varie epoche (dal XVI al XVII secolo) che orna le pareti della chiesa quattrocentesca della Madonna di S. Nicola annessa all’ex monastero delle Clarisse di S. Maria delle Grazie. Grandiosa la scena del Giudizio Universale e Gloria di Cristo (datato 1548) che occupa il catino dell’abside. Impressionante l’immagine di Satana nell’atto di addentare e ingoiare un dannato. Vi consigliamo anche di raggiungere il vicino monastero delle Trappiste per l’acquisto di marmellate e cioccolata fatte in casa nel minuscolo store all’interno del parco.

 

Fotografie di Sergio Galeotti