di Vittorio Giannella | Foto di Vittorio Giannella
Da buen retiro dei vip negli anni Sessanta a parco nazionale protetto che tutela con orgoglio biodiversità e tradizioni. Il Gargano ha mille facce. Tutte belle
Questo promontorio, quest’“isola” che si solleva dal Tavoliere, fu una delle prime mete del turismo chic degli anni Sessanta, puntando su natura, bellezza, silenzio e storia. Poi fu travolto dal turismo di massa. Oggi grazie a una nuova consapevolezza e forte dei suoi paesaggi di mare e di terra e delle tradizioni si presenta come una meta alternativa all’affollato Salento e come un modello di ospitalità, e di un turismo consapevole e sostenibile. È ancora la stessa costa, con lo stesso cielo blu e lo stesso paesaggio che ammaliò Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, che nei primi anni ’60 acquistò la spettacolare baia di Pugnochiuso, per farne un paradiso per gli amici e i clienti vip, invitati in paradiso in vista della firma di importanti commesse petrolifere. E sulla sua scia, prima ancora che venisse lanciata la Costa Smeralda nella Gallura sarda dall’Aga Khan, il Gargano divenne almeno per gli happy few, la meta esotica a portata di yacht, la spiaggia caraibica dietro casa. A distanza di 60 anni Ciccillo Langianese, di Vieste, volto da pescatore scavato e abbronzato da tante estati ricorda bene quando Mattei, sorvolando la costa, confessò di essere rimasto folgorato dalla bellezza selvaggia del litorale garganico e dalla baia di Pugnochiuso. «In quel lontano 1959 il turismo nel promontorio, un’area di Puglia povera e arretrata, assunse una funzione trainante per il turismo di tutta la regione (il boom del Salento era ancora tutto da inventare)» ricorda Langianese. «Poi arrivarono il cemento e l’urbanizzazione turistica di massa con la sua sistematica opera di distruzione e stravolgimento estetico. A mettere a freno la speculazione edilizia e la diffusione delle seconde case e dei mega villaggi turistici fu l’istituzione del parco nazionale. Quando ormai però la moda del Gargano era stata già sostituita da altre destinazioni italiane. Il parco fu comunque un modo per conservare i paesaggi sopravvissuti e più autentici del Gargano, per garantire la qualità dell’ambiente ma anche il sacrosanto progresso economico delle genti che ci vivono» prosegue.
Ed è questa la sfida che il Gargano ha scelto di accettare. Tentare di riportare la qualità del paesaggio e dell’accoglienza a uno standard sostenibile, che possa richiamare un turismo rispettoso e non consumista, grazie alla natura, alle tradizioni, alla gastronomia e alla sua originale storia millenaria. Milioni di anni fa infatti il promontorio del Gargano era un’isola. Poi le piene alluvionali dei fiumi che scendevano dall’Appennino lo hanno saldato alla terraferma, ma dell’isola ha conservato le asprezze e gli incanti. Un’isola definita “biogeografica” con ecosistemi unici al mondo, grazie alla sua posizione e alla morfologia del territorio, con innumerevoli varietà di ambienti, montani e marini, ora protetti proprio grazie ai 125mila ettari del parco. Il Gargano vanta infatti numeri da record in fatto di biodiversità: accoglie 95 specie di orchidee selvatiche, dà ospitalità al 35 per cento dell’intera flora italiana, e include, nelle zone interne, un bosco unico di faggi, tra i 400 metri e gli 800 metri d’altitudine: la Foresta Umbra (dove “umbra” sta per ombra), un grande polmone verde, dal 2017 patrimonio mondiale dell’umanità Unesco, nel quale ci si immerge con piacere soprattutto se si è reduci da un viaggio sotto il sole a picco. Sotto la volta di questo ombrello verde verticale esteso per 15mila ettari di faggi, cerri, tassi millenari, risuona il concerto delle migliaia di esemplari delle 170 specie di uccelli che vivono qui. Un giro in auto o in moto lungo la litoranea che da Mattinata porta a Vieste, classificata dal Touring Club Italiano “panoramica”, è il modo migliore per scoprire o riscoprire lo spirito più interessante del Gargano e permette di godere di una varietà di ambienti spettacolari. Come un sinuoso serpente la strada si affaccia sull’Adriatico, si inerpica tra la macchia mediterranea e la pineta, mostrando squarci improvvisi su rocce strapiombanti e baie. Ogni curva regala visioni impreviste: baia di Campi, baia delle Zagare, con i faraglioni e le due spiagge che scivolano nel mare turchese. Ad appena tre chilometri una deviazione a destra porta, dopo una discesa ardita, alla baia di Vignanotica immersa nei profumi tipici mediterranei. Una falesia alta 70 metri, bianchissima, striata di selce, forata da numerose grotte, è il rifugio dalla calura estiva per i bagnanti e termina con una lunga e stretta spiaggia di minuscoli ciottoli.
I promontori che si susseguono verso Vieste, anni fa erano quasi tutti ornati dai trabucchi, caratteristiche piattaforme di legno su palafitte per la pesca, che hanno sfamato tante generazioni di pescatori e rappresentano ancora oggi, un originale esempio di architettura spontanea. Alcuni rimangono ancora in piedi a punta S. Felice, dove il lavorìo del mare ha creato l’architiello, un arco naturale sormontato dalle chiome dei pini d’Aleppo. I trabucchi sopravvissuti sono 13, tra Vieste a Peschici. Come il trabucco Molinella, diventato un “monumento” dove, grazie a volontari, i visitatori possono capire il suo complicato funzionamento. Alcuni sono stati trasformati in ristoranti romantici con il pescato dalla rete al piatto, altri in locali da happy hour. Vieste spunta improvvisamente tra i boschi di pini. La bianca cittadina è fortificata da mura possenti che non hanno però impedito numerosi saccheggi e incursioni da parte dei pirati saraceni. Qui il vento s’incanala tra pittoreschi vicoli e piccole piazzette e porta profumi della cucina di terra e di mare. Lunghe scalinate si arrampicano fino al castello eretto nel 1240 da Federico II. Dall’alto si staglia il faraglione di Pizzomunno, a guardia della lunga spiaggia e dei bagnanti, è il simbolo della città. Una delle leggende racconta infatti che Pizzomunno, questo il nome di un pescatore viestese, fosse innamorato di Cristalda, ragazza di rara bellezza. Corteggiato dalle sirene, il ragazzo non dava cenni di cedimento: amava la sua Cristalda. Ma le sirene gelose trascinarono Cristalda in fondo al mare, Pizzomunno rimase pietrificato dal dolore e si trasformò nel faraglione. Al porticciolo poi vale la pena prenotare un giro in barca per godere delle bellezze della costa, dove l’odore del mare si mescola a quello della resina, dei fiori selvatici, del rosmarino, con gli alberi abbarbicati su aspri dirupi scolpiti dal vento, i faraglioni e le grotte in cui ripararsi e ascoltare un silenzio arcaico, rotto solo dal suono della risacca. Poi basta fare pochi chilometri verso nord per arrivare a Peschici. È annidata su una rupe alta cento metri e punteggiata di piccole case e con l’immancabile castello, che si raggiunge perdendosi tra mille vicoli come in una casbah araba, ma più silenziosa.
Se il mare è il motore trainante del turismo nel Gargano, in una visita in questa parte della Puglia non va trascurato l’interno del promontorio, con il suo ricco universo di storie e tradizioni. È un Gargano antico, con i paesi arroccati su colli calcinati dal sole, piccole locande, intriso di una grande spiritualità. La si coglie bene a Monte Sant’Angelo, a 800 metri d’altitudine, luogo fresco anche in piena estate. Qui, tra gli eremi domina il silenzio. Tutto il borgo è raccolto attorno al santuario di S. Michele, patrimonio dell’umanità Unesco e uno dei più antichi della Cristianità. La leggenda narra che fu lo stesso arcangelo a chiederne la costruzione nel V secolo. Sono sette le chiese in Europa dedicate all’arcangelo Michele: dall’Irlanda alla Cornovaglia, dall’Italia alla Grecia fino a Israele. La ideale linea retta che congiunge tutte queste località, rappresenterebbe secondo la tradizione il colpo di spada che ricacciò all’inferno il diavolo. I tre siti più importanti, Mont St. Michel in Francia, la Sacra di S. Michele in Piemonte e S. Michele a Monte Sant’Angelo sorgono tutti alla stessa distanza. Cuore del santuario è la grotta che si spinge fino nelle viscere della montagna, dove l’arcangelo tra il 490 e il 493 apparve per tre volte a Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto. La grotta si raggiunge attraversando le porte bronzee, fuse a Costantinopoli nel 1076, e scendendo 86 gradini, resi lucidi dal passaggio di milioni di fedeli. Sui muri, sin dal V secolo i pellegrini lasciarono incisi i loro nomi in latino, longobardo, greco e anglosassone. Non molto distante da qui, a San Giovanni Rotondo, si può visitare la tomba di S. Padre Pio, altra tappa imprescindibile per pellegrini e curiosi. Ma per tutti da non mancare, a soli otto chilometri da Monte Sant’Angelo, è l’abbazia di S. Maria di Pulsano, affacciata su un profondo canyon costellato di romitori dei monaci che nel XI secolo trascorrevano anni in solitudine, preghiere e contemplazione. Come fecero frate Bono e frate Orso che lasciarono scritto su un diario: «Il sole sorgeva dal mare, là nel golfo di Manfredonia, l’erba bagnata emanava un profumo da stordire, gli uccelli si libravano liberi nel cielo, per questo, per così poco eravamo contenti». Quelle atmosfere che il Gargano riesce con orgoglio a preservare.