di Tino Mantarro
Sul massiccio del Pasubio la Strada delle 52 gallerie è un vero prodigio di ingegneria militare. Oggi è un sentiero escursionistico a prova di vertigini
Per raccontare la Strada delle 52 gallerie bisogna percorrerla, questo è il problema. Quando ho saputo che l’avrei affrontata l’idea mi ha lasciato indifferente: «Che sarà mai». Sbagliavo. Non sono mai stato un grande amante della fatica alpina, né appassionato delle memorialista della Grande Guerra: non digerisco quelle storie di fronti immobili, assalti eroici e battaglie di anni per conquistare una trincea al prezzo di migliaia di vite. Per cui il Pasubio era solo un vago ricordo di qualche riga dell’esame di storia contemporanea. Senonché un collega, grande conoscitore di cose di montagna, mi disse: «Non l’hai mai sentita? È un’escursione bellissima!». Così dicendo estrasse dall’armadio la Guida dei Monti d’Italia del Tci realizzata con il Cai negli anni Settanta. Teneva tra le mani un volume tascabile con una bella copertina di tela dedicato alle Piccole Dolomiti Pasubio. Lesse a pagina 326: «Itinerario di straordinario interesse storico e ambientale, che non ha uguali per la sua arditezza: si tratta di un’autentica meraviglia dell’ingegneria militare e dell’umano lavoro realizzata, su idea del capit. Motti e progetto dell’ing. Zappa, dalla 33ª compagnia minatori del 5° genio e da 6 centurie di lavoratori al comando del capit. Corrado Picone». Era abbastanza per incuriosirmi.
La Strada delle 52 gallerie, conosciuta anche come Strada della Prima Armata, è una mulattiera militare costruita durante la Grande Guerra sul massiccio del Pasubio, una formazione calcarea, compatta e squadrata, povera d’acqua e di vegetazione, con valli scoscese e rocciose che salgono verso l’alto come le bianche pareti del Duomo di Milano. Sulla mappa sta a cavallo tra Trentino e Veneto, a metà strada tra Rovereto e Schio. Si trova giusto sulla linea del fronte su cui si attestarono italiani e austriaci durante la prima guerra mondiale. Nel maggio 1915 fu conquistato dagli italiani senza sparare un colpo, poi venne perso nel giro di una manciata di giorni. Dal maggio 1916 gli austriaci sulle vette, con il favore strategico dell’altezza; gli italiani in basso, a sudare e a pensare come arrivare lassù, ma soprattutto come restarci. I lavori iniziarono il 29 gennaio 1917 e terminarono nel dicembre successivo. Raccontano che fu uno degli inverni più rigidi e nevosi del secolo, all’inizio lavorarono un ventina di uomini, in estate oltre 600.
Per la costruzione della strada si lavorava di mina, facendo saltare pezzi di montagna, o scavando con martelli pneumatici ed esplosivo. Lo scopo era di consentire il transito di uomini e salmerie (viveri e attrezzature, in gergo militare). Esisteva già un’altra strada, più ampia e semplice, ma era esposta al tiro degli austriaci, per cui poco praticabile. Ne serviva una fruibile in qualsiasi stagione e con qualsiasi tempo che fosse al coperto dalla vista e – come si diceva allora – dall’offesa del nemico. Serviva per continuare la battaglia lassù, sull’altopiano del Pasubio: strategico scacchiere per le sorti del fronte trentino. In termini assoluti un piccolo posto, due denti di montagna contesi per mesi a suon di granate e assalti. Due denti costati la vita ad almeno 4.500 uomini. Così tanti «che si aspettò il 1921 per riaprire la montagna agli umani. (...) Ma le ossa biancheggiarono così a lungo nei burroni che fino agli anni ‘50 si piazzarono dei cestini perché i gitanti le deponessero» scrive su Repubblica Paolo Rumiz. Insomma, un pezzo di storia.
La mattina in cui avrei dovuto affrontare la Strada delle 52 gallerie nubi bianche e leggere si affollavano tra le vette delle Piccole Dolomiti, l’azzurro vivo di qualche ora prima diventava più pallido, velandosi. Faceva caldo alla bocchetta di Campiglia, quota 1216 metri, l’attacco della salita raggiunto in bus da Rovereto. Caldo, di quel caldo umido che non promette nulla di buono. Per chi sapeva leggere il cielo dalla Pianura Padana saliva un fitta nuvolaglia che sembrava accalcarsi proprio sopra le nostre teste, all’altezza delle cime del Pasubio. «Qui in estate, di norma, piove di pomeriggio. In giorni come questi l’umidità che si accumula sul mare si addensa e viene a scaricare da queste parti» ha sancito perentorio Michele Zandonati di professione “accompagnatore di media montagna”. Dove “media montagna” ti chiedi che cosa significhi. E se fai lo spiritoso: «Vuol dire che quando saremo in alto arriverà un altro che ne sa di più?», Michele ti mette subito in riga. «No, vuol dire che qui comando io e anche su. E ora andiamo, che piove». Giusto il tempo di prendere lo zaino, serrare le stringhe degli scarponcini e chiudere il bavero della giacca che inizia a piovere. L’imbocco della Strada delle 52 gallerie è segnato da due muraglioni di cemento rosso che si restringono, quasi fosse l’ingresso di un teatro. Qualcuno ha pensato di mettere l’accesso a pagamento, intanto le pareti servono per appendere foto della costruzione, pannelli con informazioni storiche e mappe. C’è anche un punto di ristoro, se non dovessi arrivare al rifugio Papa entro sera per una conferenza sarebbe un perfetto approdo. Ma bisogna andare, la montagna chiama.
Così la copertura del mancato ingresso torna utile per sostare all’asciutto, tirar fuori la giacca impermeabile e il telo per coprire lo zaino. Piove davvero tanto, di quella pioggia pesante, a goccioloni, che fa un rumore tamburellante sotto gli alberi. Pioggia continua e costante. Dopo poco, anche se indossi abiti ultra tecnici o un sacco nero di plastica la sensazione è la stessa: ti senti umido e appiccicoso. E se hai gli occhiali è peggio: si appannano e non vedi granché oltre il tuo naso. Ma non vedere sul Pasubio ha i suoi lati positivi, soprattutto se soffri maledettamente di vertigini e stai per affrontare i 6.300 metri di questo storico tracciato. Non vedere potrebbe calmare qualche ansia. Così come potrebbe aiutare il camminare immersi nelle nuvole basse. Già, ansia. Michele dopo poco mi affianca e chiede: «Sei tu quello che soffre di vertigini?». «Sì, corretto». «Ma quanto?». Come si quantificano le vertigini? Tanto. Così tanto che una volta in un prato scosceso non sono più riuscito a muovermi. Mi sono accucciato e sono rimasto lì, aggrappato ai fili d’erba, paralizzato. Per arrivare qualche centinaio di metri oltre, sono andato avanti a carponi, centimetro dopo centimetro, mentre una bambina sgambettava, irridendomi. «Capito, abbiamo un problema. Stai in coda, per la prima parte non ci sono problemi». Ecco, problemi. Sarei dovuto andare avanti a leggere la descrizione della Guida Monti, avrei così appreso che «il sentiero della 52 gallerie è un’ampia mulattiera che incide e trafora picchi e burroni del tormentatissimo versante sud del sottogruppo di M. Forni Alti, determinando un incessante succedersi di sensazioni che conferiscono a questo percorso un primato estetico non superabile».
Primato estetico lo chiamano. Che sofisma. Avrebbero almeno potuto aggiungere l’indicazione: sconsigliato a chi soffre di vertigini. La strada infatti si svolge sul fianco accidentato della montagna, scavata a mezza costa nella viva roccia: «Ora tagliando a capanna le pareti a picco, ora forando costoni e pinnacoli per evitare burroni e canali franosi, ora affacciandosi su torri inaccessibili». Quando non si affaccia sul vuoto è al coperto: le 52 gallerie riguardano 2.300 metri del percorso. Una volta, ai tempi della Grande Guerra erano illuminate, ora no, serve la torcia, o meglio ancora il frontalino che lascia le mani libere. Un problema per chi soffre di claustrofobia e nel gruppo, per non farsi mancare nulla, c’è chi ne soffre ma stoicamente avanza. Così si sale, lentamente, perché la pendenza – specie all’inizio – è oltre il 20%. Gli alberi la cui presenza rassicura, svaniscono. Lingue di vapore sfilano via, si guarda per terra tra ciottoli e rivoli d’acqua che bagnano le scarpe. Si arranca, si parla poco. Ognuno porta la sua fatica e i suoi pensieri; il gruppo si sgrana come nelle migliori tappe del Giro d’Italia. Sembra di entrare nel cono di un vulcano per la porta secondaria. Le gallerie portano nomi di generali, Cascino, Cantore, Zoppi. Dentro prendo fiato, mi sento al sicuro, sembrano più stabili della roccia che calpesto. Spiega Michele che quattro gallerie hanno uno sviluppo elicoidale, i militari del genio le hanno scavate come chiocciole dentro una conchiglia. Una, la 19ª è lunga 320 metri. La successiva, la ventesima, si eleva a spirale su se stessa per quattro volte risalendo dall’interno un torrione roccioso come le scalinate di un campanile in una chiesa gotica. Un prodigio di ingegneria: ironia della sorte dedicata a Luigi Cadorna, che proprio non se la meritava essendo il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito sulla cui coscienza grava la disfatta di Caporetto. Mentre sali a testa bassa viene da pensare a quale mente visionaria può aver immaginato il tracciato di una strada laddove ci sono solo guglie, forre e gole selvagge. Quale disperazione può aver spinto qualcuno ad osare tanto per rifornire un fronte fondamentale. «Sul Pasubio nella primavera del 1916 gli italiani compirono un capolavoro bloccando la Strafexpedition e bisognava continuare a tenere la posizione» racconta Michele, che alterna silenzi a storie di guerra, parla di gradiente orientale e disegna fronti con le mani.
Poi arriva il brutto, o il bello, dipende dalla relazione di ognuno con le altezze. Usciti dalla valle a quota 1842 metri il sentiero diventa un viottolo tra le rocce, la strada procede in piano, ma la cosa non consola. Si sfiora il passo di Fontana d’oro e si continua a salire in questo vicolo intagliato nella roccia che precipita a valle. Un sentiero scolpito nella montagna, largo due metri, due metri e mezzo, attrezzato di tanto in tanto con delle catene sul fianco destro nei tratti più esposti e sdrucciolevoli. Spettacolare, dicono, avessi avuto il coraggio di guardare. Non ci fossero state le nubi, una volta in alto il paesaggio si sarebbe dischiuso sotto di noi come una mappa distesa su di un tavolo, ma le nuvole persistevano tra le cime. E siano benedette quelle nuvole, perché sotto c’era il vuoto: uno strapiombo verticale che chissà quanti asini ha inghiottito ai tempi della guerra. Michele mi si è fatto vicino, mi ha allungato un bastoncino dicendo: «Stringilo forte come se fosse la cosa più cara». E così siamo andati avanti, passin passetto: strana coppia di montanaro saggio e cittadino sprovveduto. Si sentiva solo un vento leggero, il mio ansimare e un sottile brusio, come d’acqua in lontananza. Così facendo, umidi e sudati, siamo andati avanti. Posso dire di aver baciato terra dopo aver toccato il Papa, inteso come rifugio, che se ne sta lì come un’oasi d’alta montagna, a dare ristoro agli assetati.
La mattina dopo c’è un’alba asciutta, senza vento. L’aria fresca, quasi fredda, il cielo sgombro di nubi, silenzio epocale, nessun uccello, solo le scie di qualche aereo. Dalle finestre del rifugio Papa guardi l’ultimo tratto della strada fatta il giorno prima: quei due metri e mezzo di roccia bianca su cui ha mosso titubante i piedi, appiattendoti sulla montagna, sfregandoti sulla parete fino a farti sanguinare la mano destra, quella a monte. Mentre a valle si facevano strada i raggi del sole la scarsa nebbia si liquefaceva, il vuoto sottostante non era più nascosto. Era lì, e basta. E allora guardi quel rivolo di strada conquistata tra i pinnacoli e i torrioni di calcare e ti dici «Madonna mia, ma che ho fatto». Soddisfatto neanche fossi un grande eroe, ti ripeti: «È stata un’esperienza magnifica che non farò mai più». Poi riguardi la Strada delle 52 gallerie, lo strapiombo e il pensiero va a quei ragazzi di inizio Novecento. Spesso contadini, taglialegna, mai militari per scelta. E allora pensi: «Madonna, che cosa hanno creato, come l’hanno fatto». Loro sì, che eroi.