di Tino Mantarro | Fotografie di Alessandro Grassani
Su quel ramo del lago di Como, da Mandello del Lario a Colico, per scoprire il Sentiero del Viandante, il primo cammino certificato dal Touring Club Italiano
Per essere tenuti in vita i cammini hanno bisogno di essere “camminati”, e il Sentiero del Viandante invita a farlo. Corre a mezza costa sul quel ramo del lago di Como, proprio quello che volge a mezzogiorno di manzoniana memoria. Unisce Abbadia Lariana (Lc) con Piantedo (So), alle porte della Valtellina, percorrendo la sponda lecchese del Lario. È un percorso di 45 chilometri con qualche saliscendi, un tracciato ben tenuto e segnalato, che in quattro tappe tocca una dozzina di paesi in riva al lago ben organizzati per accogliere e far vivere un’esperienza turistica eccellente. Così eccellente che il Sentiero del Viandante è divenuto il primo Cammino certificato dal Touring Club Italiano.
Non si tratta di una antica via calpestata dai Romani, come se ogni strada con un po’ di storia l’avessero per forza tracciata loro, né di un’arteria secolare su cui sono transitati i Lanzichenecchi e i mercanti dell’Europa Centrale: chi dice il contrario – si trova di tutto online – sbaglia. È piuttosto una via d’uso quotidiano divenuta prodotto turistico grazie a un visionario funzionario dell’Azienda turistica di Lecco, in anni in cui nessuno pensava che costruire un Cammino potesse essere una buona idea. Invece questo signore illuminato nel 1992 ha preso carta e penna e come nei giochi della Settimana Enigmistica ha unito i trattini costruendo sulla mappa e sul terreno il Sentiero del Viandante. Nient’altro che un collage di mulattiere che univano frazioni e borgate a mezzacosta sia tra di loro sia con i paesi sul lago. «La viabilità verso il passo Spluga e la valle del Reno passava sull’altra sponda, lungo la Strada Regina, ma merci e persone si spostavano sull’acqua. Fino agli anni Cinquanta c’erano ancora i battellieri che rifornivano i paesi, mio padre è stato tra gli ultimi» certifica Roberto Pozzi, esperto di storia locale. Colpa dell’orografia complessa della sponda lecchese: dal capoluogo ad Abbadia Lariana la montagna sotto le Grigne è talmente a picco e arida che non si vede come si potrebbe passare agilmente. «Così chi doveva transitare o andava in barca o entrava in Valsassina e usciva a Bellano, o a Dervio, piuttosto che cimentarsi con sentieri accidentati» spiega Pozzi. E allora il Viandante – del nome c’è una citazione nel catasto asburgico, poco altro – era un sentiero per spostamenti quotidiani, più che per grandi viaggi. E infatti ancor oggi è adatto a chiunque sia un minimo allenato – tranne la seconda tappa, dove si sale (e scende) da 250 a mille metri di altezza in una decina di chilometri – con dislivelli e lunghezze accettabili.
Antico o moderno che sia il tracciato, l’aspetto più piacevole di tutti i viaggi lenti è che si diventa sensibili ai dettagli, trasformandosi in osservatori delle cose minute. Così piano piano, specie se si cammina con una guida, si impara una grammatica dimenticata – ma forse è più onesto dire del tutto ignota – fatta di alberi e pennuti, mulini di pietra e santuari. Osservazioni da cittadini che un nonnulla basta a stupire. Come il vento che increspa il paesaggio, si infila tra gli alberi e genera quel rumore che sa di fresco grazie all’attrito della foglia che sfrega foglia, del ramo che struscia ramo. Del resto chiunque abiti in città ha ben presente quella sensazione di esserci stato per troppo tempo, specie in questi mesi, e sente quel desiderio di entrare fisicamente nel verde, attraversare il paesaggio tenendosi il più possibile a distanza da strade e cemento. Ecco, il Viandante – pur non attraversando terre selvagge – soddisfa questa esigenza del camminatore non eroico. In alcune tappe, specie l’ultima, da Dervio a Colico, ci sono tratti in cui non sembra di essere a un’oretta da Milano. Nonostante di tanto in tanto la vedi, e alle volte la senti anche, quasi non ti accorgi che nel ventre della montagna passa la Superstrada 36.
Cammini in un bosco di castagni incontrando oggettivamente poche persone, giusto qualche runner urbano fuori contesto e camminatori in libera uscita, e quando la boscaglia si fa meno fitta e si allarga vedi il lago. E allora come una vedetta vigile nella sua torre ti puoi divertire a osservare il vento schiaffeggiare l’acqua; il via vai cadenzato dell’aliscafo che ancora dà un senso al servizio di navigazione passeggeri tra Como e Colico; i ferry che traghettano le auto nel triangolo del turismo d’élite Bellagio-Menaggio-Varenna, quello amato dagli americani e dagli inglesi in caccia di scorci suggestivi che in effetti non mancano. Per il resto, ma dipende dai giorni, incrociano barche a vela orfane del mare e nella parte superiore, specie davanti a Dervio e Colico – ma solo al pomeriggio, quando entra il vento –, gli aquiloni acrobatici dei patiti del kitesurf che qui hanno trovato la loro Mecca lombarda. Così, percorrendo il Viandante, il lago diventa un ovvio riferimento costante, una quinta animata che fa da sfondo a un percorso che in un giorno di giugno post Covid non è molto animato. Qualche tedesco al castello di Vezio, sopra Varenna, salito per godere della vista zenitale del borgo; madre e figlia che pranzano al fresco; amanti della corsa in montagna al mattino presto, qualcuno a spasso con il cane, poco di più. In compenso molti volatili: merli affaccendati tra le foglie, un gheppio che dispiega le ali, qualche picchio che a prestar orecchio si sente battere sul tronco, e poi ghiandaie, usignoli e pettirossi. Animali selvatici pochi, si spera perché assai timidi e ben nascosti, e non perché del tutto assenti.
A essere assenti sono gli abitanti, quelli sì. La maggior parte delle borgate che si trovano a mezza costa, grappoli di costruzioni di pietra con viste maestose sul lago, sono interamente disabitate. Alcune sono state sistemate come seconde case, altre sono vuote da decenni e sembrano destinate a crollare. Peccato, perché nelle varie tappe c’è sempre un borghetto, un angolo particolare, dove ci si vorrebbe fermare, prendere un caffè e mettersi a leggere. Come a Pendaglio, ben in alto dopo Bellano, prima di Dervio, dove per il riposo del viandante dopo la lunga salita ci sono una manciata di sedie dimenticate. Sedie anni Settanta, con le corde di plastica gialla a far da seduta che ti segnano le cosce. E allora meglio il muretto davanti alla chiesetta seicentesca di S. Domenico, costruita dai fedeli del borgo in tempi in cui nessuno pensava di appendere un cartello vendesi alla finestra di casa.
Oppure poco prima di Bellano, dove c’è un complesso di case rurali chiamato Fabbrica, con una massiccia costruzione in pietra che fu un locale per l’allevamento dei bachi da seta, un negozio e soprattutto un’osteria a mezza via tra le frazioni di valle e di montagna. A giudicar dai filari che ancora resistono dovevano servire quel vinello leggero per cui era famoso il lago, almeno fino a quando la fillossera non devastò tutto e la precoce industrializzazione di questo versante attrasse i contadini verso filande, cotonifici e fabbriche. Borghi belli come Corenno Plinio, nobile presidio con tanto di chiesa gotica, castello merlato e un’infilata di case appollaiate una sopra l’altra che sembra di essere alle Cinque Terre, ma sui toni del grigio, e invece si è in riva al lago. O Lezzeno, dove c’è un santuario seicentesco dedicato alla Madonna delle Lacrime e dietro, oltre a un prato alberato che invita al pic nic, c’è un borgo di grandi case di pietra. Su di una facciata si legge uno sbiadito “ristorante” che racconta di un’epoca in cui la visita ai santuari era l’unica scusa che giustificava un viaggio. Oggi è un’altra chiesetta, quella di S. Rocco nell’ultima tappa, a giustificare da sola la fatica. Per raggiungerla si imbocca una salita che sembra una scalinata di granito che porta in cima al Duomo. Il selciato è antico, pietre incastrate una a una chissà da chi e chissà quando. Si arranca in un castagneto fitto misto a qualche faggio: insieme fanno una bella ombra ristoratrice.
Da lassù, quasi all’angolo del lago, tra Dorio e Colico, il paesaggio si dispiega come una mappa stesa su un tavolo. E a saperlo leggere quel paesaggio racconta molte cose. Sotto due sottili strati di nuvole da osservare c’è l’aspetto geografico: la parte iniziale del lago di Como alimentata dall’Adda, dove si vede a occhio nudo che il suo corso deve esser stato rettificato da qualcuno con un enorme righello; la sponda lariana fin verso Dongo; il dolce promontorio di Piona e il piccolo tranquillo golfo sottostante; l’imponente monte Legnone e la dorsale delle Prealpi Orobie sulla destra; la conca glaciale della Valtellina, ben disegnata e chiusa dalle Alpi Retiche con vette oltre i tremila. E poi, quei tre panettoncini, tre rughe nel terreno quasi liscio, che nei secoli hanno ospitato altrettanti forti a difesa del Pian di Spagna. Con la scusa di riprendere fiato viene da pensare all’aspetto storico: se si chiama Pian di Spagna un motivo ci sarà. Il nome rimanda al tempo, quattro secoli fa, in cui questo era un confine importante, l’estremo limite nord del Ducato di Milano, con la Repubblica delle Tre Leghe, libero Stato consociato alla Confederazione Elvetica che fino al 1797 dominò l’intera Valtellina. Lì gli spagnoli milanesi costruirono il forte di Fuentes, nascosto nella boscaglia e ultimo baluardo della cattolicissima Spagna contro i protestanti.
A saper di geologia si potrebbe anche trovare il punto esatto dove passa la Linea insubrica, la linea tettonica che separa le Alpi granitiche dalle Prealpi calcaree. Ma forse è troppo, finite le lezioni bisogna riprendere a camminare. Il Sentiero, per essere tenuto in vita, va percorso fino in fondo.