di Riccardo Morri
La geografia serve per comprendere la storia, ma anche l'atturalità
Non tutte le statue sono uguali. Neanche quelle che in questi mesi ovunque si vogliono abbattere,dagli Stati Uniti a Milano. E non certo per il loro pregio artistico o valore urbanistico, quanto per quello che significano a livello simbolico. Eppure nello scegliere le statue contro cui scagliarsi bisognerebbe aver più accortezza e conoscere meglio la storia e la geografia nel loro complesso. Perché non è affatto sufficiente erigere un monumento per fare di questo, e del soggetto rappresentato, un simbolo. La geografia insegna che per le statue vale quel che vale per i confini o le città contese: è il significato di cui si caricano luoghi e oggetti a renderli espressione di un sistema di valori condiviso o contestabile. Da questo punto di vista, è preferibile quindi da un lato scegliere con la giusta attenzione e consapevolezza i simboli contro i quali scagliarsi e, dall’altro lato, in maniera più efficace anche dal punto di vista educativo – specie in una prospettiva intergenerazionale, considerato che ci sono diffuse forme di ignoranza croniche che affliggono non solo e non tanto le persone più giovani –, procedere piuttosto per ri-significazione invece che per rimozione. Che cosa significa? Significa che invece di abbattere bisogna saper contestualizzare in base all’epoca in cui sono state erette le statue e aggiornare a oggi quel contesto e il suo significato.
Innanzitutto bisogna dire che non è possibile mettere sullo stesso piano forme analoghe di proteste avvenute in diversi contesti o, meglio ancora, la replica in modalità seriale di alcune proteste in territori differenti non conferisce alle varie manifestazioni la stessa urgenza e uguale valore di legittimazione sociale. A prescindere dal giudizio storico, la figura e il ruolo del generale sudista Robert Edward Lee nella battaglia e nella geopolitica della futura guerra di Secessione, hanno un peso e un significato radicalmente diverso per la cultura e per la società americana da quello di Indro Montanelli per la cultura e la società italiana. Così, se negli Usa dopo l’omicidio del cittadino afroamericano George Floyd la sacrosanta richiesta di una definitiva e completa emancipazione da ogni discriminazione su base razziale ha trovato espressione anche nella rimozione di monumenti considerati in qualche modo simbolo del razzismo e dell’oppressione eretti in passato per celebrare personaggi protagonisti di “imprese” coloniali, in Italia le cose sono diverse. Soprattutto il rischio della strumentalizzazione e della banalizzazione “all’italiana” di questioni fondamentali come il ripudio e il contrasto della discriminazione razziale è tanto più alto, infatti, quanto minore è il valore storico e sociale delle rivendicazioni messe in campo.
Bisogna essere consapevoli che la potenza dei simboli sta nella loro coerenza e nel loro essere funzionali alla retorica, al messaggio politico, culturale, religioso che si vuole affermare: la possibilità di imporre un messaggio dipende quindi dalla condivisione dello stesso. Una condivisione è tanto più libera quanto meno subita (come avviene di norma in dittatura e nei regimi liberticidi), tanto più è basata su un’adesione critica e sulla conoscenza. Così come ha sottolineato la scrittrice italiana di origine somala Igiaba Scego, la battaglia non va giocata sul terreno della rimozione, ma su quello della decostruzione della storia dei vincitori e della narrazione degli eventi e dei luoghi anche dalla prospettiva dei vinti e degli oppressi. Una battaglia tanto più significativa e necessaria in un Paese come l’Italia che ha spesso eretto a sistema la rimozione della memoria, come proprio Igiaba Scego assieme al fotografo Rino Bianchi racconta molto bene nel libro Roma negata: percorsi postcoloniali nella città (Ediesse, 2014) e che potrebbe trovare un’indispensabile azione di formazione in istituzioni come il nascituro Museo italo-africano “Ilaria Alpi”, all’interno del Museo delle Civiltà a Roma.