di Clelia Arduini
A Guardiagrele, in provincia di Chieti, tra arte e creatività si cerca di preservare la tradizione ma guardando al futuro
La croce d’argento in lamine d’oro brilla nel posto d’onore che le hanno riservato al Museo di S. Maria Maggiore a Guardiagrele, in provincia di Chieti. Qua e là, tra le formelle, si accendono alcune foto che completano l’opera come tessere di un puzzle. Non si tratta di un’installazione d’arte contemporanea, ma di un capolavoro rubato, tagliato a pezzi e poi recuperato in parte. Un gioiello realizzato nel 1431 da Nicola da Guardiagrele, il più celebre cittadino del borgo abruzzese, protagonista assoluto dell’oreficeria quattrocentesca. I suoi tabernacoli sono incredibili microarchitetture e le sue croci processionali, come quella in esposizione nel museo guardiese, un inno all’arte orafa e alla devozione. Da quando la preziosa croce è stata restaurata e ricomposta utilizzando immagini che raffigurano le tessere mancanti, l’hanno ammirata circa 5mila visitatori. Tutti però si augurano che ritrovi al più presto la sua forma originale così da tornare a splendere nella terra natia e rendere ancora più simbolica ed emozionante un’auspicabile mostra sull’artista guardiese (che, in attesa di quella “fisica”, per ora è stata organizzata in versione digitale in occasione del festival Artigitale, arte e artigianato digitale, che si svolge da quattro anni in agosto).
«Il crocefisso – racconta Ivan De Lucia, 32 anni, collaboratore del Museo di S. Maria Maggiore – fu trafugato una notte di settembre del 1979 e smontato delle sue preziose formelle che presero la via dell’estero. Dieci anni dopo, il Comando Carabinieri per la tutela del patrimonio culturale identificò e recuperò ad Amburgo e a Londra tramite la casa d’aste Sotheby’s undici formelle, una lesena alla base del tempietto ottagonale e qualche sfera floreale alle estremità della croce. Seguì quindi un lungo restauro e solo due anni fa, così ricomposto, il crocefisso è tornato a essere simbolo e identità del borgo abruzzese, anche se mancano ancora all’appello alcune formelle, di certo chiuse in qualche cassetta di sicurezza». La creatività e la perizia tecnica di questo borgo marcato dal dna del grande Nicola hanno consentito di realizzare, specie a inizio Novecento, raffinati manufatti per arredare le case delle più importanti famiglie d’Italia e perfino i palazzi papali. Di quel tempo aureo oggi però rimangono solo il ricordo e uno sparuto, ma agguerrito, numero di artigiani che con i loro pezzi unici continua in direzione ostinata e contraria a rinnovare la tradizione. Da Porta San Giovanni – detta anche Porta della Fiera – si aprono le botteghe di questi irriducibili maestri del ferro, del rame, dell’oro e della ceramica, che danno vita a oggetti dalle forme e dai colori a volte insoliti a volte tradizionali. Deliziosi e pregiati monili che ogni anno diventano i protagonisti della mostra dell’artigianato artistico abruzzese, che si tiene nel Palazzo dell’Artigianato – ricavato da uno storico convento del XVIII secolo – richiamando un centinaio di artigiani della regione e alcune decine di orafi da tutta Italia, oltre che migliaia di visitatori, italiani e stranieri. Per la sua 50ª edizione, quest’anno, è stata sperimentata la vendita e-commerce e la visita virtuale dei padiglioni sui social network, in rete fino a Natale.
In uno dei laboratori lungo via Roma – la strada principale di Guardiagrele – mani nervose battono colpo su colpo con un rumore cupo che sorvola la Villa Comunale e si perde nel liquido panorama del belvedere Santoleri proteso sull’Adriatico. Da qui, nelle giornate più limpide si scorgono addirittura le isole Tremiti. Sono le mani di Filippo Scioli, 77 anni di cui 70 trascorsi nella bottega di famiglia. Del resto, che cosa poteva fare il figlio di un maniscalco a sua volta figlio di un maniscalco? Il maniscalco, ma a modo suo. «Un giorno – racconta – dopo anni passati a forgiare attrezzi, ho preso un blocco di ferro e ho cominciato a plasmare cigni, farfalle, cani, tutti in un solo pezzo perché a me le saldature non piacciono. Da allora non ho smesso più». Lo conoscono persino negli Stati Uniti da cui arrivano richieste di cancelli, testiere, lampade; persino Sergio Marchionne – altro abruzzese di talento – lo chiamò alla Sevel in Val di Sangro, azienda che produce veicoli industriali leggeri, come testimone della creatività umana oltre la catena di montaggio. Filippo, conscio di rischiare di essere l’ultimo dei Mohicani, ha trasmesso i suoi segreti a una schiera di giovani, per lo più stranieri, che hanno aperto atelier in tutta Europa. Uno di loro, tedesco, è rimasto qui nel paese, e ora gli fa concorrenza. Anche Luca Ferrari ha seguito le tradizioni di famiglia (il suo trisnonno realizzò il tabernacolo della chiesa di S. Francesco) e con i suoi 28 anni è l’artigiano più giovane di Guardiagrele. La sua missione, dopo aver frequentato l’Istituto d’arte a Chieti, un corso di arte orafa a Sulmona e una scuola di oreficeria moderna a Firenze, è unire creatività, innovazione e tradizione. Tra i gioielli tipici del territorio, ama creare a modo suo la “presentosa”, divenuta celebre grazie a Il Trionfo della Morte di Gabriele D’Annunzio, che la descrive come “una grande stella di filigrana con in mezzo due cuori”. «La tradizione vuole – spiega Luca – che venga donata alla futura sposa dai suoceri come pegno d’amore in occasione della presentazione dei rispettivi genitori. C’è anche quella con il cuore singolo, che indica lo stato nubile di chi la indossa e viene donata dalla madre alla figlia in età da marito. Oggi però è diventata un monile alla moda adattandosi con simboli diversi al gusto degli acquirenti e a tutte le occasioni. I due cuori possono per esempio essere separati o uniti da una chiave, da un nastro o da una mezzaluna o sostituiti, come ho fatto una volta, con il simbolo del segno zodiacale».
Tra viuzze e slarghi spicca il candore di bassorilievi, capitelli, androni, candelabri, portali, stipiti, cornici, architravi, stemmi gentilizi che ornano chiese e case private: è la pietra bianca della Majella, malleabile come burro, che ha rappresentato l’arte e la vita per migliaia di scalpellini locali, dal Medioevo fino al secolo scorso. La loro maestria spesso diventava arte vera e propria, come l’altare e le decorazioni del Duomo o la sua facciata con l’elaborato portale. Bianco abbagliante, spalmato dappertutto, che spinge il Vate, ancora ne Il Trionfo della Morte, a definire Guardiagrele “nobile città della pietra”. Bianco vivo, che acceca anche Guido Piovene: nel suo Viaggio in Italia, scrive che è “luccicante come la pelle tesa di un elefante”. Bianco ancestrale, che nasce dalle rocce della Majella – il massiccio del territorio – fatte di crostacei e conchiglie, testimoni di un tempo, forse di un sogno, in cui come un mostro marino la sua testa emerse dall’oceano Tetide. Più che una vetta, la Majella – da venticinque anni tutelata dall’omonimo parco nazionale – è un genitore: “Padre dei monti” per Plinio il vecchio, “Montagna madre” per gli abruzzesi, che pronunciando il suo nome sembrano invocare una dea primordiale che c’è sempre stata e sempre ci sarà. Eppure tutta questa pietra bianca che ammanta il borgo e il territorio non ha più interpreti perché all’appello mancano gli scalpellini di tradizione. Solo recentemente Pietro Del Romano, 58 anni, braccia robuste e sorriso dolce, ha deciso di diventare intagliatore di pietre. Qualche anno fa, a causa di un incidente sul lavoro, si è dovuto rimettere in gioco e visto che già si occupava di cave e di rocce la scelta è caduta proprio lì. «Ho cominciato a scolpire vasi – racconta – poi sono passato a candele, capitelli, oggettistica varia per bomboniere, ma la mia passione sono le lampade, di tutte le fogge e le misure». Per ora, grazie a Pietro, la tradizione della pietra lavorata è salva, ma il fronte degli artigiani si fa via via sempre più fragile. Sarebbe necessario un intervento mirato per non perdere questo antico talento, che ha rappresentato il passato e potrebbe ancora essere il futuro. Tra i progetti, l’istituzione di una scuola dell’artigianato per la quale da cinque anni un finanziamento di due milioni è fermo. «L’iniziativa – spiega Piergiorgio Della Pelle, assessore alla Cultura del Comune – si scontra da un lato con l’abolizione delle scuole professionali, da un altro con la ristrettezza dei budget regionali per l’istituzione degli Istituti tecnici professionali. Per la formazione è centrale la qualifica che il titolo conferisce». In attesa che gli elefantiaci tempi della politica si concludano con azioni ad hoc i nostri artigiani vanno avanti e anche il Covid-19 non li ha fermati. Ma la burocrazia è un virus letale, avrà la meglio su di loro? La risposta ce l’ha Stefania Santone, 51 anni, ceramista sopraffina, che lancia un appello accorato ma anche ottimista: «Vinceremo noi perché è proprio questa bellezza che ci salverà. L’artigianato rappresenta la nostra identità, la nostra peculiarità, ma anche la nostra economia perché muove turisti e visitatori. Servono incentivi, promozione, comunicazione e soprattutto amore per il territorio, la vera linfa vitale per continuare, pena la morte per estinzione». E allora sì che il grande Nicola, con strepiti e clamori, si rivolterebbe nella tomba.