Controcanto. Geometrie delle Langhe

 

 

«A Dogliani l’Editore (Giulio Einaudi) invitava spesso Bartolo Mascarello produttore di grandi vini piemontesi in Barolo (…).
Andavano per le colline armati di una piccola guida del Touring Club di colore rosso: Somano, Serravalle Langhe, Marsaglia, Niella Belbo, Borgomale, la chiesa incredibile dello Schellino a Cerret(t)o Langhe…
a volte in certe cappelle sperdute, in vecchie case, magari sotto un porticato in mezzo alle galline, scoprivano antichi affreschi».

Ernesto Ferrero, I migliori anni della nostra vita, Feltrinelli, 2005

I vigneti delle colline salgono come gradinate di anfiteatri verdi, spezzati dal bianco giallastro dell’argilla che emerge dalla divisione dei filari, stretti e appiattiti per la raccolta dei grappoli e ricomposti e scomposti nella loro geometria dai declivi variati, come se Cézanne fosse passato da quelle parti per riproporre le sue molteplici visioni del Mont Sainte-Victoire. La modernità degli impianti ha reso perfettamente rettilinee le file, ancor più artificali con la potatura a cordone speronato; con i grappoli, nascenti da esili rami, esposti alla luce, uno a fianco dell’altro.
Le Langhe sono colline di cucuzzoli urbanizzati e di fondovalle boscosi, che nascondono le ripe dei torrenti e, nei rari prati sottratti alle viti, di noccioleti di verde più scuro e marezzato, dalle foglie disordinate e scomposte, quasi a voler impellicciare la fronte e il retro di ogni lato dei rami. Le strade stanno sui crinali, collegando i paesi, i castelli e le chiese neogotiche sporporzionate per dimensione e per guglie e torrette, che il geometra architetto Schellino, doglianese, nella seconda metà dell’Ottocento ha costruito con la ricchezza proveniente dall’unità d’Italia.
La Guida Rossa Piemonte del Tci non ha per le Langhe molte stelle e grassetti: qualche castello (Grinzane, Falletti di Barolo), qualche tavola di Macrino d’Alba, ma molti panorami e paesaggi definiti in genere spendidi o maestosi, che si susseguono da poggi e belvederi, «dalla tenuta vinicola Fratelli Ceretto ardita costruzione in vetro e acciaio detta il cubo», dalla cappella di S. Fereolo, dal castello in forma di villa dei Cordero a Montezemolo e via discorrendo, per parrocchiali e diramazioni, sino alla cima del guscio a torciglione delle case arroccate attorno all’antica Monforte d’Alba.

Monforte oggi è il nome a uno dei principali corsi di Milano perché lì i suoi abitanti, che preferirono il rogo all’abiura, furono bruciati come eretici, ai tempi di Ariberto d’Intimiano; con tale ferocia che ancor oggi il terreno è occupato dagli uffici della Prefettura e della Provincia come se il sangue fosse diventato sale e lo avesse reso improduttivo per sempre.
Alla cima del pinnacolo sorgente dalla base della collina trasformata in parcheggi e ristori per turisti di passaggio e cercatori di vino in estate e di tartufi in autunno (l’impeccabile Guida Rossa la descrive come «centro frequentato per villeggiatura estiva») si arriva per acciotolate stradicciole. Salgono come una buccia di limone affettata a spirale, curvando in coincidenza con portoni e muraglie di conventi e orfanatrofi, fondazioni e casette, sino all’apice. Alla «piazzetta gradonata ad anfiteatro», tra l’oratorio di S. Agostino con il campanile restaurato dai Prunotto (Barolo) e il portone in barocchetto piemontese dell’ingresso al castello trasformato da secoli in palazzo. La chiesa sta nel punto più in alto, con lo «splendido e maestoso» panorama dell’intorno, dove finisce l’ultimo gradone dell’anfiteatro erboso, tra le cornici di granito. Lì, in quello spazio ridotto, senza la protezione di nessuno, i catari, che consideravano il male parte della vita terrena ed estraneo all’onniscenza divina, furono presi dagli imperiali per sgombrare il passo all’imperatore che scendeva a Roma, e trasferiti a Milano, come i dannati degli affreschi medioevali, da Ariberto che lasciò a loro la scelta se restare nella sporcizia del mondo o bruciare. Vinse la purezza.