di Antonio Armano | Fotografie di Fabrizio Annibali
Cento chilometri a piedi per riscoprire l’antica Via del Sale, il sentiero storico che univa Varzi, nel Pavese, con la costa di levante della Liguria
Vicino alla cascina dove sono cresciuto in Oltrepò pavese si aggirava un matto che chiamavano “cento chilometri” perché camminava sempre. La condanna nei confronti del passeggiatore compulsivo si estendeva a chiunque andava a piedi quando poteva usare la macchina o almeno la bici. Camminare non era ancora di moda, nonostante la crisi petrolifera e le targhe alterne. Solo trasferendomi a Milano, grazie all’anonimato della metropoli e spesso alla protezione del buio, mi sono liberato del senso di colpa per il bisogno di compiere lunghi tragitti a piedi.
Intanto la mentalità cambiava e ho sentito parlare della Via del Sale, il sentiero che da Varzi porta al mare. Carovane di muli partivano cariche di merci tornando dalla Liguria cariche di sale. Su e giù per le montagne e i millenni,
fino all’avvento dell’automobile. Ho tentato di fare la Via del Sale qualche anno fa, ma non era ben segnalata e sono finito fuori strada a Daglio dove ho mangiato dell’ottimo formaggio convincendomi, che esiste un turismo dello sbaglio. Mi sono prefisso di riprovarci questa primavera ma ho dovuto ritardare la partenza a una mattina di mezz’estate causa pandemia. Ecco perché mi ritrovo a Varzi con dieci chili di zaino sulle spalle e il sole a picco sulla testa piena di dubbi: dopo la lunga clausura e una forma leggera di Covid-19 arriverò in fondo? Mi toglierò gli scarponi in spiaggia per fare il fatidico tuffo.
Fondamentale svegliarsi a Varzi per partire presto e sfruttare le ore di fresco o di luce. La Via del Sale inizia in modo dolce con la colazione al bar Sport in piazza della Fiera. Alle pareti foto della gloria locale, il ciclista Carlo Chiappano. Maglia rosa per un giorno nel ’65, le colline di Coppi non sono lontane. «Torta di mele o di pesche?»: Carla Barbieri le ha fatte in casa e me le propone in alternativa. Le mangio tutt’e due. Avrò modo di smaltire salendo da Varzi al monte Chiappo, da 416 a 1699 metri. La prima tappa è la più dura. Passato il ponte sullo Staffora si compie il grande passo, il primo di molte migliaia, imboccando uno sterrato chiuso alle macchine da una sbarra. Fa uno strano effetto camminare sulla riva meno battuta del torrente che dà il nome alla valle. Baite di legno immerse nel verde, un altro mondo a due passi dal centro, e un avviso: “Attenzione! Battuta al cinghiale in corso”. Una volta il pericolo erano briganti come il Diavolo Pinin Musso, oggi i cinghiali. Difficile incontrarli a meno di non farsi sorprendere dal buio. Dopo mezz’ora di salita si incontrano le case di pietra e i fienili di Monteforte. Non si vede anima viva ma non è disabitato. Al lavatoio l’acqua scende fresca, ma non bisogna illudersi: a Castellaro si potrà riempire di nuovo la borraccia, poi niente più fonti fino al termine della tappa. Fare i conti con la scarsità d’acqua è un modo per entrare nello spirito della montagna. Castellaro è conosciuta per il ristorante Primula Bianca, della famiglia Pollini, qualche camera per i clienti, cucina a base di prodotti locali, selvaggina compresa. D’estate porcini e tartufi neri. Si torna sul sentiero e salendo la vegetazione cambia all’ombra delle conifere. Nel pomeriggio si arriva alla prima vetta, il Boglelio (1491 metri), e al primo bivacco, pian della Mora. È un capanno di legno con la stufa e la porta sempre aperta. Nient’altro, ma può essere molto.
Poco sopra un altro bivacco, il Laguione. Qui c’era l’albergo Belvedere, distrutto dalle Brigate Nere perché dava rifugio a dodici prigionieri inglesi, fuggiti dal campo di Gavi e denunciati da qualcuno. Era stato costruito nel 1928 da Paolo Toso di Forotondo, quasi un risarcimento postumo vicino al punto dove don Pietro Castellano era morto assiderato “in una notte buia e tempestosa” del 1924 e dove esiste una cappella dedicata a Sant’Anna e al povero parroco di Negruzzo. Dio perdona, la montagna a volte no, le Brigate Nere mai. Si cammina tra nebbie estive, mucche bianche al pascolo, cacche pelose di lupo e fioriture tardive di maggiociondoli: cascate di fiori gialli che dovrebbero sgorgare dai rami a maggio, ma quest’anno non le poteva vedere nessuno e così hanno deciso di arrivare in ritardo. Verso sera, dopo circa venti chilometri di salita, si arriva al famigerato “strappo” del monte Chiappo, a 1699 metri di quota. Sentivo dire “cammini con l’erba in bocca”, ma è meno dura del previsto.
La nebbia impedisce la visuale, il rifugio è chiuso da tempo e sotto a un cartello caduto riposa una vipera. Meglio scendere verso Capanne di Cosola, punto d’arrivo della prima tappa. Il mulattiere sembra un mestiere scomparso nella notte dei tempi, ma all’albergo di Capannette di Pei ci sono ancora clienti come Mario Rivera, nato a Genova nel 1939, che ricorda le vacanze dopo la guerra, con salita dell’ultimo tratto a dorso di mulo, le notti a lume di candela e i prati falciati di fresco. Con lo spopolamento montano il bosco ha preso il sopravvento. La famiglia Tambussi gestisce l’albergo da cinque generazioni: dal capostipite Geppo ai trisnipoti Filippo e Samuele, figli di Carlo e Mirella. Siamo ai confini della val Boreca con toponimi dalle sonorità africane come Tartago e Zerba. Qualcuno ipotizza sia passato di qui Annibale. Dire qui è dire tutto e niente. Capanne di Cosola è in Piemonte, Capannette di Pej in Emilia, davanti a noi la Liguria e alle spalle la Lombardia con Varzi come centro montano principale della zona. Eppure i confini sono solo sulla carta o si sentono «perché l’amministrazione pavese tiene le strade peggio delle altre» lamenta Tambussi.
Alla mattina Mirella fa i pisarei, gnocchetti di farina e pane da condire con sugo di pomodoro, fagioli e lardo. Vicino all’hotel incontro un pellegrino con la conchiglia sul basco e due cani al seguito e facciamo colazione insieme con la crostata di Piera. Si chiama José Maria, viene da Castril de la Peña, sopra Granada, ed è diretto a un monastero di Trapani: «Anche il luogo dove vivo è selvaggio» dice. Si è ritirato dalla vita normale dopo essere stato l’unico sopravvissuto di un incidente di auto. È preoccupato di trovare fonti di acqua: «I cani hanno bisogno di bere». Non lavora e non ha soldi. Se piove o nevica si ripara sotto a un telo. Si orienta con la applicazione Tierramapa, scaricando le mappe strada facendo. Io ho comprato a Voghera le quattro mappe dello Studio Cartografico Italiano di Genova: Le Vie del Sale. Dall’Oltrepò pavese al mare.
La seconda tappa per me è la più bella. Per antiche mulattiere si cammina sulla cresta erbosa e rotonda di grandi montagne come il Carmo, con piccoli borghi sperduti come isole tra i boschi e illuminati dal sole che filtra dalle nuvole come un raggio divino. Ma la montagna è anche morte e tre croci nel bosco indicano il luogo dove tre mulattieri sono “stati sorpresi dalla tempesta”. Negli anni d’oro il parco dell’Antola aveva diversi rifugi, ora caduti in rovina. Nel 2007 ha aperto il nuovo rifugio gestito dal Cai. I rifugisti sono una giovane coppia, Silvia e Federico, con una bambina di nome Rosa, un cavallo nero, una capra bianca e un San Bernardo. Una bella famiglia in una situazione invidiabile ma dura. Dio solo sa se ho fatto bene a fermarmi per un panino: la discesa verso Torriglia è faticosa. L’ultimo pezzo sembra non finire mai mentre si cammina su pietre aguzze. Un calvario addolcito da una sosta per mangiare amarene dall’albero a Donette. A Torriglia dormiamo in un centro equestre, il Mulino del Lupo. È una baita in un maneggio con grandi stanze, letti a castello e uno spazio comune con una vecchia stufa in ceramica sovrastata da una vasta tela equestre. Mi raccontano di escursionisti che arrivano con l’asino e fanno lunghi cammini sostituendo lo zaino con la soma.
Nella terza tappa si incontra la macchia mediterranea, tra pini marittimi, mirti e lentischi si scruta il cielo per vedere il mare anche se l’afa sfoca l’azzurro dell’orizzonte. La Via del Sale è diventata Via del Mare. Mentre cammino tra terrazzamenti coltivati, esplosioni blu di plumbago, panni colorati stesi al sole in cima a una vallata, mi chiedo se sono nella disposizione d’animo giusto. Gli itinerari degli escursionisti seguono tempistiche da prestazioni sportive senza i ritmi lenti che si pensano connessi a un viaggio di questo tipo. La Via del Sale si fa in tre notti e quattro giorni alzandosi presto e camminando dieci ore al giorno. Si attraversa un’altra dimensione, l’Appenino spopolato di gente e ripopolato di animali selvatici: daini, lupi, cinghiali... Una visione si succede a un’altra ma si deve arrivare al rifugio prima del buio. Bisognerebbe spezzare il viaggio in più tappe, magari dormire a Pregola facendosi venire a prendere con la jeep da Jacopo Bariani dell’hotel Olimpia. È bello anche risvegliarsi nel rifugio sotto il monte Antola. All’arrivo pernottare nell’agriturismo sopra San Fruttuoso e non correre a prendere l’ultimo treno della sera. La vista di un branco di cavalli selvaggi che brucano indifferenti ripaga la fatica e persino il duro tratto di asfalto in discesa nella parte finale della terza tappa.
Nel rifugio di Uscio incontro Sonia Poni. Dopo una laurea in informatica a Milano in tempi ancora analogici, ha lavorato per aziende come Adobe. Poi ha deciso di mollare tutto e comprarsi una casa «vicina al mare ma non troppo». Nel 2005 ha letto l’inserzione di una villa anni Venti e se ne è innamorata. L’ha trasformata in un rifugio. Si è data da fare per promuovere il turismo a piedi sulla Via del Mare usando tutte le arti del passato da commerciale.
Da un fornaio a Uscio compriamo della focaccia per un pranzo su un tavolo di legno che troveremo all’ombra precaria delle nuvole. Il tocco speciale è la menta dell’orto di Sonia che profuma l’acqua della borraccia. Da Uscio in poi dicono sia “una passeggiata”. Non fidatevi, anche perché da qui la temperatura aumenta. Si attraversa la storica Colonia Arnaldi, immersa nell’ombra e nel silenzio, e si scende mentre la temperatura sale e il mare appare dietro alle vette. A un certo punto sbagliamo sentiero. È la cosa che più temevo, la sindrome di Daglio. Terribile accorgersene mentre ci si allontana dalla meta. Finiamo quasi a Recco.
Sbuchiamo tra alcune case sul temuto asfalto. Ritroviamo un sentiero per svallare verso Ruta di Camogli dopo una lunga salita. Scendiamo per ripide scalinate dove la Via del Mare è ancora segnalata fino alle spiagge di sabbia scura di Camogli. Sta per scoppiare un temporale e il mare è mosso. Mi tolgo gli scarponi appoggiandomi a una pila di canoe e mi butto. Dagli Appennini alle onde. Consultando un’applicazione sul treno del ritorno viene fuori che abbiamo fatto cento chilometri. Come non pensare al camminatore matto dopo avere eguagliato il suo titolo, che oggi si vorrebbe quasi nobiliare e una volta era stigma di follia.