di Giuseppe Scaraffia
I giorni marocchini di George Orwell tra capre, sultani e povertà
«Forse un tempo era un buon albergo, ma deve avere recentemente cambiato gestione e si è trasformato in un bordello», concluse George Orwell prima di lasciare l’ingannevole fasto dell’hotel consigliato dagli amici. Era arrivato a Marrakech con la moglie per curare la tubercolosi col clima secco del posto. Il segno del passaggio dal Marocco spagnolo a quello francese era stato l’infittirsi della presenza dei cammelli. I muri rosa pallido erano di terra cruda, le arance che gremivano gli alberi lungo le strade erano immangiabili. Malgrado il suo progressismo, Orwell dovette ammettere che l’accattonaggio dei bambini era tanto fastidioso da rendere quasi insopportabile esplorare la città. Un giorno l’avevano ferito a una mano per strappargli le monetine che stava per dare di mancia al ragazzo che gli aveva trovato un taxi.
La povertà era immensa. Un altro, un impiegato del Comune, vedendolo offrire del pane alle gazzelle di un giardino pubblico, gliene aveva chiesto un pezzo e se ne era andato pieno di gratitudine. Orwell osservava scrupolosamente i fiori, i frutti e gli animali: un giorno aveva preso, per liberarla subito dopo, una grossa tartaruga marina che «puzzava in modo disgustoso», ma era piena di vita. Le mosche erano molto insistenti, ma i bambini non sembravano farci caso. Non avevano giocattoli e fin da piccoli venivano impegnati nei lavori di falegnameria
Aveva affittato una villetta, due capre per il latte e alcune galline per le uova. Ma i polli morivano di un male misterioso e non facevano uova, mentre le capre, che mungeva di persona, davano poco latte. Il 1° ottobre 1938 vide la catena dell’Atlante imbiancata dalla neve. Guardava impietosito i piccoli asini trasportare carichi pesanti; i cammelli erano sottomessi e i cavalli obbedivano docilmente agli ordini degli arabi. I ricchi montavano i muli, che erano più cari di tutte le altre cavalcature. La droga del posto, il kiff, non gli aveva fatto il minimo effetto. Girava per i mercati, comprando olive color porpora, noci saporite e datteri precocemente rinsecchiti. Chi acquistava una pecora, se la portava via in spalla. Malgrado il velo, le donne non erano affatto timide e giravano sole senza problemi.
Poco a poco le galline avevano cominciato a produrre e lo scrittore registrava ogni giorno la quantità di uova nei Diari dal Marocco (da poco ripubblicati da Berti Editrice). Notò l’entusiasmo della popolazione durante la visita ufficiale del sultano, «un uomo per niente imponente». Al contrario che in India, non c’erano segni di ostilità verso gli europei. Anzi, un alto e maestoso soldato nero gli aveva rivolto uno sguardo timido e pieno di rispetto. «Quando si vede come vive la gente qui, e ancor più spesso come muore, è difficile pensare di essere circondati da normali esseri umani... Le persone hanno la pelle scura e sono così tante! Sono fatte davvero della nostra stessa carne? O sono solo un ammasso indistinto di roba scura, con la stessa individualità di uno sciame d’api e di insetti?».