di Maria Pace Lucioli Ottieri
Il mondo e il Sahara non ostile di una generazione fortunata in una riflessione di Maria Pace Ottieri
Una generazione di viaggiatori fortunati quella nata tra gli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, forse i più fortunati della storia, liberi di spostarsi in un mondo non ostile. C’era la Guerra Fredda, certo, i Paesi del blocco comunista erano in gran parte inaccessibili, ma vaste aree allora remote del mondo, in Asia e in Africa, erano percorribili senza rischi se si era pronti ad affrontare l’avventura, la scomodità, ripagate da incontri inaspettati e indimenticabili. Ho attraversato due volte il Sahara, e nei recenti mesi della clausura ho riletto i diari di quei viaggi irripetibili, negli anni Settanta e Ottanta. ll deserto è sempre stato pericoloso, chiede di essere organizzati, avere benzina e acqua sufficienti, affidarsi a qualcuno che conosca bene le sue piste e ci vuole tempo per abituarsi all’idea che anche al di là dello sguardo, per giorni e giorni sia solo il vuoto.
Ma da quel vuoto, che non è mai lo stesso, poteva spuntare da una duna un giovane tuareg col turbante color indaco, magrissimo, stralunato, a cavallo del suo dromedario, che ti invita a bere il tè nella sua tenda nascosta dietro a un ciuffo di cespugli spinosi. La giovanissima moglie, fasciata da un manto nero, ha una bambina al seno vestita solo di mosche. Escono dalla povera tenda due figli poco più grandi e ci fissano con stupore, le capre invece sono indifferenti. Da un sacco di pelle incartapecorito, con gesti secchi e precisi, il tuareg estrae una piccola teiera, uno straccio piegato che racchiude il tè, dei bicchierini di vetro. Sempre da seduto cerca due pezzetti di legno intorno a sé e quattro rametti secchi, e ordina al figlio più grande di accendere il fuoco. Conto gli oggetti che possiede la famiglia, quelli all’esterno almeno, in tutto una decina: qualche sacco di capra, anzi qualche capra usata come sacco perché la forma è la stessa; un piccolo mortaio; la stuoia, il coltello tuareg appeso alle pareti della tenda; un altro sacco grande, sempre di cuoio, ma colorato. Tre giri di tè e di saluti, una timida richiesta di vestiti e medicine e ci riaccompagna alla macchina, dispiaciuto. Resterà solo con la moglie e i bambini, un puntino in uno sterminato vuoto.
Il Sahara e la sua sponda, il Sahel, sono diventati luoghi di morte, dove scorrazzano incontrastati gli jihadisti. Oggi probabilmente quel tuareg gentile sarebbe minaccioso. Dopo l’uccisione di Muhammar Gheddafi, decisa dalla Francia e dalla Nato, i tuareg sahariani che il colonnello aveva trasformato nella sua milizia privata, sono tornati nei loro Paesi del Sahel, Mali, Niger, e il Nord del Burkina Faso, carichi di armi razziate dagli arsenali libici e sono stati facilmente reclutati dalle organizzazioni islamiste, riaccendendo la guerra etnica tra nomadi e popolazioni africane. In vent’anni, con un’accelerazione negli ultimi dieci, i Paesi dove mi è capitato di viaggiare anche da sola, sono ora diventati tra i luoghi più pericolosi del mondo: sequestri, uccisioni, stragi sono all’ordine del giorno. Mi sforzo di immaginare quel mite ragazzo tuareg trasformato in un feroce guerrigliero, ma il ricordo prevale sull’immaginazione e i ricordi non si possono cancellare finché la memoria tiene.