Appennino on the road

Paolo SimoncelliPaolo SimoncelliPaolo SimoncelliPaolo SimoncelliPaolo Simoncelli

Tra Toscana ed Emilia un itinerario a piedi sulla strada Porrettana, antica via di pellegrini, granduchi e papi. Tra piccoli borghi, battaglie leggendarie e incontri casuali. Con le canzoni di Francesco Guccini, come colonna sonora

Tutto comincia da una strada che non corre “lunga e diritta” – come canterebbe un celebre nativo di queste parti, il cantautore Francesco Guccini – ma è un rosario di curve a gomito, interminabile come un giorno senza pane. Siamo sulla strada Porrettana, antica via di comunicazione fra Toscana ed Emilia frequentata sin dai tempi degli Etruschi e per diversi secoli uno dei principali sentieri per attraversare l’Appennino. Nel Medioevo la chiamavano Via Francesca della Sambuca ed era percorsa dai pellegrini in viaggio verso Roma perché rappresentava una variante alla più conosciuta, e affollata, Via Francigena; nell’Ottocento fu trasformata in un’infrastruttura al passo per quei tempi e nel 1928 “promossa” a pieni voti con il titolo di Strada statale 64 Porrettana. Abbiamo percorso 36 di quei 137 km che collegano Pistoia a Ferrara, seguendo il tracciato inaugurato nel 1847 dal Granduca di Toscana che l’aveva battezzato con il suo nome, Via Leopolda, e che si concludeva a Porretta Terme (mentre nello stesso anno, sotto il governo pontificio di Papa Gregorio XVI fu terminato il tratto nel versante bolognese). Sono terre alte, sospese tra i crinali e le strette valli dell’Appennino tosco-emiliano, dove la Toscana è un po’ Emilia e viceversa. Terre abitate da comunità resistenti che lottarono per la sopravvivenza quando le strade verso la pianura erano meno di mulattiere e da mangiare c’erano solo castagne o quando c’era da abbattere il confine della loro libertà che finiva sulla Linea Gotica. Lottano ancora oggi per colpa dello spopolamento dei loro borghi e l’unica carta da giocare è il turismo dei finesettimana, delle seconde case, di chi lavora in città e d’estate torna nel paese natale.

Da Pistoia il salto nel verde è un attimo. All’inizio sono olivi e acacie – qui chiamate “cascie” – circondati da edere e biancospini; poi arrivano i lecci e i castagni e la strada che comincia a salire si assottiglia e s’incupisce. Il pensiero vola a quel tempo in cui era un’impresa percorrere a piedi o a cavallo questa bretella sospesa tra due mondi – il Granducato di Toscana che governava dall’Appennino al mar Tirreno e lo Stato Pontificio che amministrava Bologna – e tra due ere – l’Italia prima e dopo la sua unità. Rare case cantoniere sembrano vestigia di civiltà estinte; un cartello con la scritta “44° parallelo” segna il confine tra l’Italia centrale e quella settentrionale, a pochi metri è un furgone che vende panini con porchetta o lampredotto (stomaco di bovino bollito). Ma intorno non c’è anima viva, solo il brusio delle foglie. Ecco Signorino, dove passava la Linea Gotica, la difesa ideata nel 1944 dai nazisti durante le fasi finali della campagna d’Italia contro l’avanzata degli alleati verso nord. Erano 320 km di fuoco, con 479 cannoni, 2.375 mitragliatrici, 100mila mine, circa 4mila casematte e 16mila postazioni per cecchini, che correvano dal fiume Magra, tra La Spezia e Massa Carrara, fino a Pesaro. Occhieggiano tra la vegetazione, dopo 76 anni, i cadaveri arrugginiti di trincee e fortificazioni, che si scorgono salendo al passo della Porretta (o della Collina), a quota 932 metri. Fa strano vederli lì, a un tiro di schioppo dal cielo e dall’infinito, e più della loro carica di morte ricordano scenografie di un film di guerra lasciate lì da un attrezzista pigro o distratto. Superato il ristorante Il Signorino, dove già alla fine del Settecento esistevano tracce di una stazione di cambio cavalli per le carrozze e di ristoro per i viaggiatori, si giunge a un bivio che annuncia la frazione Castello di Sambuca. Per salire al maniero, eretto su uno strapiombo alla metà dell’XI secolo con torri e mura merlate, bisogna percorrere prima in auto e poi a piedi una stradina che si assottiglia fino a divenire una mulattiera, sconsigliata a chi soffre di vertigini. Siamo nel Comune di Sambuca Pistoiese, a tre chilometri dal confine con l’Emilia: milleseicento anime, quattro fiumi, il novanta per cento del territorio coperto da boschi, numerose frazioni tra i monti. Una piccola cellula di vita che prima dell’Unità d’Italia fu grande scenario di conflitti, alleanze, scambi, dazi tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana. Quel che rimane della rocca è una torre mozzata e bucherellata che guarda il vuoto dove galleggia la Via Francesca della Sambuca. Da quassù il vento nelle fessure gioca a imitare il pianto di una donna, che l’eco della vallata fa rimbalzare all’infinito: è Selvaggia dei Vergiolesi, la bella e sfortunata figlia del capitano dei vinti ghibellini pistoiesi, messer Filippo, che venne a nascondersi nella rocca per sfuggire ai guelfi e qui trovò la morte nel 1313.

La storia di Selvaggia, dopo 707 anni, continua a vivere tra queste pietre di confine grazie all’amore che il poeta stilnovista Cino da Pistoia, amico di Dante e di Petrarca, nutrì per lei dedicandole versi dolcissimi nello struggente sonetto, I’ fui ‘n su l’alto sul beato monte. Pane per cuori visionari, viaggiatori, appassionati di letteratura. La frazione di alte vedute, ma senza residenti, è abitata principalmente in estate da romantici fiorentini, pistoiesi e bolognesi, che spargono di fiori e di vita le antiche viuzze; anche la chiesa dei Ss. Jacopo e Cristoforo che si affaccia sulla valle del Limentra occidentale è curata durante l’anno da un signore del luogo che ne garantisce la visita. Vale la pena una deviazione a Treppio, un insieme di borgate nella valle popolata da cervi, cinghiali e c’è chi dice pure da lupi. Qui arrivarono 149 anni fa a dorso di mulo due suore che si dedicarono all’istruzione delle “fanciulle del popolo” dando origine alla Congregazione delle Mantellate Serve di Maria. L’antica casa è stata restaurata di recente e offre ospitalità ai pellegrini del Terzo millennio. In piazza è la chiesa dedicata a S. Michele Arcangelo, con un maestoso organo costruito dall’organista Pietro Agati nel 1794, dove si raccolgono ogni anno visitatori, appassionati di musica e cultori d’arte da tutta Europa e da molti Paesi del mondo come Giappone, Sudafrica, Stati Uniti, Brasile e Russia. Ma qui ciascuno è impegnato in qualche progetto per dare vita al borgo: uno di questi è Sergio Maestrini, socio Touring, che lavora a Pistoia, ma ogni weekend torna al paese natìo a dare man forte alle iniziative della pro loco. Il viaggio continua, mentre come un cielo doppio si aprono il grande bacino artificiale di Suviana, a pochi chilometri da Treppio, coperto da una vegetazione intrigante e il borghetto di Torri con gli enigmatici mascheroni sulle facciate delle case.

Pavana, alla fine della vallata del Limentra di Sambuca, rotola sulla Porrettana, siamo ancora in Toscana, ma la “c” aspirata è sparita, già si fa strada la cadenza emiliana, però l’Emilia non è ancora. Chi vuol sapere tutto sull’argomento deve leggere Il dizionario del dialetto pavanese del già citato Guccini, che del paese è figlio acquisito, cantore, storico, amante. La storia della sua famiglia la canta il mulino Chicon, poco distante dal paese, che rappresenta quelle “radici” da lui raccontate in un mitico album del 1972. Vita, morte e miracoli del borgo sono raffigurati sotto il portico della casa delle Logge, che fu costruito dopo l’apertura della Via Leopolda per offrire ai viandanti un ricovero, ai commercianti un punto d’incontro e ai paesani un luogo di ritrovo. Qui troneggia l’affresco del pittore pistoiese Paolo Maiani che, in occasione dei mille anni di Pavana compiuti nel 1998, ha offerto il suo pennello alla comunità dopo essere stato colpito dai personaggi di un altro libro di Francesco, Cròniche epafániche. Tra Cino e Selvaggia ha immortalato pure il faccione barbuto di Guccini. Lungo la strada che odora di Emilia è d’obbligo una puntata alla macelleria dei Savigni: un piccolo impero dei sensi che ti strega con culatello di montagna, spalla stagionata, crema di lardo di cinta senese, salsiccia fresca o passita, pancette stese o arrotolate di Mora o di Sambucano. Il paesaggio intanto cambia, le rughe dell’Appennino si distendono, i colori tornano vividi, si ritocca terra con Porretta Terme (che dal 2016 fa parte, insieme a Granaglione, del Comune di Alto Reno Terme) e la fama delle sue acque portentose, citate da Niccolò Machiavelli ne La Mandragola. Due sono le anime del paese in provincia di Bologna: una ottocentesca dove nacquero sul percorso del fiume Reno i Bagni della Porretta e la storica ferrovia (vedi box a pag. 51), l’altra trecentesca del centro, stretto e lungo, attraversato dal Rio Maggiore sul cui greto un giovane Guglielmo Marconi “giocava” con l’elettricità. Porretta Terme con i suoi alberghi demodé e i suoi caffè appare lontana dall’Appennino fosco e tosco a tre chilometri di distanza. Ma un “che bischero” pronunciato da un passante con la cadenza emiliana giunge alle orecchie e ripiana le distanze. C’è ancora Toscana in questo frammento di Emilia e viceversa, anzi c’è qualcosa di più: una “cuginanza” acquisita nel tempo.

Foto Paolo Simoncelli