di Tino Mantarro | Foto di Archivio fotografico Tci
Dalla Terra del Fuoco la storia dell'incredibile sopravvivenza degli Alakaluf e della loro lingua
Le lingue muoiono allo stesso modo delle persone, a casa, in silenzio. Dentro quattro mura sembra destinata a spegnersi la lingua Kawésqar, parlata ormai solo da un manipolo di indigeni purosangue sull’isola di Wellington. O almeno questo sembrava essere il destino del Kawésqar e della sua gente, i Kawésqar, come si definiscono nella loro stessa lingua gli indigeni Alakaluf, popolazione che vive nell’estremo lembo meridionale del Cile. Che siano ancora vivi è una stranezza della storia. Secondo un reportage su Le vie del mondo di agosto 1950 gli Alakaluf erano «prossimi alla sparizione definitiva e irrimediabile».
Non lo scriveva un avventuriero di passaggio ma Louis Robin e José Emperaire, etnografi francesi che nel 1946 furono mandati dal Musée de l’homme di Parigi in una missione etnografica di 22 mesi. Il compito era studiare sul posto quelli che all’epoca si pensava fossero “gli ultimi indiani fuegini” che abitavano quel labirinto di tempestosi arcipelaghi, canali e ghiacciai tra Ande e Pacifico. Ne venne fuori una documentazione poderosa, illustrata dalle immagini di queste pagine, in cui si toglieva ogni speranza al futuro di queste genti. «Sono murati in questo mondo ostile (…), dagli 800 metri in su si estende uno dei più vasti ghiacciai del pianeta, fino ai 400 metri c’è l’inestricabile foresta vergine magellanica». Nonostante possa sembra un mondo incontaminato, una bellezza pura e ciclopica, la realtà è dura. Le isole sono fredde, umide, ricoperte da uno spesso strato di torba poroso come un sughero, metti un piede e affondi nelle sabbie mobili.
In queste condizioni l’agricoltura è impossibile, per questo gli Alakaluf per secoli sono stati nomadi del mare: si muovevano in canoa cacciando foche e raccogliendo cozze. A inizio Novecento, dopo aver avuto contatti assidui con gli uomini bianchi che battevano queste isole sperdute in cerca di pelli, si sedentarizzarono. Il racconto dei due antropologi è tragico: non sanno più cacciare, non navigano più, si ammalano a contatto con gli occidentali e la mortalità è altissima. Secondo loro all’epoca non rimanevano che ottanta Alakaluf: a inizio secolo erano circa 2mila. Il destino era scritto, si sarebbero estinti a Puerto Edén, sull’isola di Wellington dove erano stati spinti a vivere dall’esercito cileno.
Nonostante il nome, l’unica qualità di Puerto Edén è la distanza dal resto del mondo. Certo, è il posto più piovoso della Terra, ma difficile chiamarla qualità. Oggi ci vivono circa duecento persone: tranne carabineros e funzionari del governo, sono tutti indigeni. Nella bella stagione una volta a settimana nella baia attracca una piccola nave da crociera, i turisti sbarcano per un’ora, comprano qualche cestino intrecciato, scattano foto e vanno via. Secondo il censimento cileno 2017 i Kawésqar sarebbero circa 3.500, un migliaio in più rispetto al 2002, anche se etnicamente puri sembra siano una decina. Ma la purezza del sangue è un mito che ci raccontiamo, il meticciato è la regola.
Assicurata la sopravvivenza, oggi la battaglia dei Kawésqar si concentra nel salvare la lingua, perché quando una lingua muore non se ne vanno solo parole, sintassi, verbi. Scompare anche una cultura, un modo di rappresentarla, storie, miti, sfumature, si perde il senso di un luogo. Che è quello che vorrebbero evitare alcuni ricercatori nelle cui vene scorre sangue Kawésqar. Anche se i parlanti purosangue tra poco scompariranno, c’è una generazione di meticci che lotta per tener in vita la lingua. Ce la faranno se i bambini, non gli studiosi, ne diventeranno il propellente. Se con errori, imbastardimenti, storpiature, parole nuove, sintassi inventate masticheranno il Kawésqar portando nuova vita nella vecchia lingua. Le lingue sopravvivono allo stesso modo delle persone, rigenerandosi.