di Tino Mantarro | Foto di Giacomo Fe
A piedi sullo Spluga, lungo l’antica via che unisce la Bandiera Arancione Chiavenna con Thusis, in Svizzera
Ho sempre amato salire sullo Spluga, ma non so bene perché. Potrebbe esser solo un riflesso condizionato legato ai galletti, quelli «belli teneri, e mai grassi» di una pubblicità anni Ottanta. Ma è più verosimile che sia per la bellezza del passo, delle vette che ne fanno corona, delle striature del serpentino che rendono le rocce un caleidoscopio di sfumature verdi. O per via di Montespluga, il villaggio che sta acquattato a qualche curva dalla sommità. Oltre, c’è la Svizzera. Il villaggio di Montespluga si riassume in una chiesa di pietra scura, tre ristoranti, una fermata dell’autobus postale, una latteria, una manciata di case tra cui una di legno dipinta di un rosso così rosso che sembra precipitata qui da un fiordo norvegese. Il tutto adagiato sulla riva di un lago artificiale che in inverno è una lastra di ghiaccio e in estate sale e scende di livello in base alle esigenze di energia della città. Montespluga fa pensare alla Patagonia o al circolo polare artico, a tutte quelle terre liminali ed estreme eppure abitate dove spesso finisce un viaggio e inizia un’avventura. Sarà per via di quell’aspetto da porto sicuro, con le luci tremule che sul far della sera vedi spuntare in fondo al lago, quasi un’epifania dopo aver salito la strada tortuosa tracciata a metà Ottocento dall’ingegner Carlo Donegani, quello dello Stelvio. Una strada eroica e impervia, incisa nella roccia, con tornanti che si arrotolano come spire di un serpente. Oppure sarà per il relativo isolamento che si percepisce quando si arriva lassù, in cima, a 1908 metri. Non tanti, ma bastano a dare un’idea di meritata tranquillità conquistata con relativo sudore. Sudore che è reale, realissimo se invece a Montespluga ci si arriva a piedi, arrancando in salita come è stato per secoli e secoli lungo l’antica strada maestra che univa la valle del Reno, e il mondo di cultura tedesca, con l’area mediterranea di cui lo Spluga è stato una delle porte, una delle più battute. Oggi la Via Spluga è un itinerario escursionistico che unisce Thusis, nei Grigioni, a Chiavenna, Bandiera Arancione in provincia di Sondrio. Lo fa arrampicandosi sul passo, e attraversando due gole vertiginose, la Via Mala e la gola del Cardinello, che nei secoli hanno atterrito viaggiatori, inghiottito muli e mulattieri e ispirato pittori e scrittori, specie i romantici che nell’orrore ci sguazzavano. A percorrerla tutta servono cinque giorni; in versione ridotta, da Splügen a Chiavenna, sono due giorni e meno di 40 chilometri.
Sulla cima del Passo Spluga, dove transita il sentiero che scollina a 2133 metri, c’è una panchina al sole che guarda la valle del Reno, anche se il Reno non si vede: incassato tra le sponde scoscese, serpeggia nel paese di Splügen, due ore di strada in discesa. Quando siedi su questa panchina viene da pensare che qui inizia un altro mondo, ma è un pensiero legato a una convenzione politica recente; per tre secoli, quando Valchiavenna e Valtellina facevano parte delle Tre Leghe Grigie, tutto questo faceva parte dello stesso mondo alpino che c’è alla spalle. Eppure nonostante le stesse rocce, gli stessi alberi, la stessa acqua dei fiumi, sembra davvero un luogo altro. Del resto, se scendi sul versante svizzero e segui il Reno arrivi sul mare del Nord; se scendi verso l’Italia e segui il torrente Liro arrivi sul Mediterraneo. Siamo nel cuore idrografico d’Europa, dicono. E allora seduti su quella panchina a guardare cime di cui vorresti sapere i nomi, ci si sente come nel mezzo di una porta girevole: tutto sta nello scegliere da che parte andare. Oggi torniamo indietro. All’hotel Posta si respira quella stessa aria di locanda di passaggio dove vorresti arrivare ogni volta che sulla strada c’è brutto tempo. L’arredamento del bar è di legno, tavoli di formica rossa, sedie solide da trattoria che ne ha vista passare di gente, sopra il bancone un grande quadro che rappresenta un piroscafo dei Lloyd di Brema. «Questo era l’ospizio del Passo: c’erano le stalle per il cambio cavalli, la posta e i magazzini. In questo edificio c’era la dogana, da qui entravano i carri che venivano controllati dai finanzieri. A inizio Novecento hanno chiuso il portone ed è diventato un albergo. E così è rimasto» spiega Fausto Sala. Dove “così è rimasto” non è un modo di dire: arredamento, pavimenti, atmosfera, tutto rimanda a quell’epoca in cui si sostava qui perché era di strada, a metà del viaggio. «Abbiamo solo aggiunto i bagni nelle camere, che allora non c’erano» spiega. La sua famiglia gestisce il Posta dagli anni Cinquanta. Il padre era capo stradino, la madre ispettrice della dogana. «E io sono nato quassù, uno degli ultimi. Ora siamo sei, sette residenti» racconta mentre mentalmente fa la conta di chi è rimasto. Su una parete c’è ancora un espositore di cartoline, di quelle con davanti scritto “Passo Spluga 2133” tra tricolore e bandiera rossocrociata. «Da piccolo mio padre mi metteva qui a timbrare le cartoline, c’era un annullo speciale “Hotel Posta, Passo Spluga”. Tutti le spedivano: era l’ultimo scampolo di vacanze prima di tornare a casa. Oggi, due al mese», racconta. Il figlio Christian le cartoline dello Spluga le raccoglie: vedute in bianco e nero, immagini di tutte le epoche, cartoline imbucate con tanti cari saluti affettuosi, “viele grüße”. «Fino al 1967/68 il Passo era vivo. Per tornare a casa, in Germania, questa era ancora una delle vie più veloci. C’era coda alla dogana, c’era anche un po’ di contrabbando, sigarette, alcool. Con l’apertura di trafori e autostrade il traffico è andato altrove». Così lo Spluga è rimasto il Passo di chi non deve davvero andare da nessuna parte, ma ama risalire queste antiche vie in motocicletta o faticare in bicicletta, e – da vent’anni – anche di chi ama camminare lungo la Via Spluga. «Sono sempre di più, anche se noi non siamo posto tappa: da Splügen arrivi in tempo per un caffè, poi scendi a Isola per il Cardinello e dormi lì».
Già, il Cardinello. Se dici che farai la Via Spluga quelli che ne sanno di montagna subito citano l’orrido del Monte Cardine, il malpasso dei viaggiatori di un tempo. Per chi scende si trova subito dopo il lago, a cospetto della diga costruita nel 1931 a sbarrare la gola del Liro, il torrente che scava la val San Giacomo. La diga è un monumento d’ingegneria rivestito di pietra ollare, quasi a volerla mimetizzare, come se così facendo l’impatto fosse minore: come se bastassero due pietre locali a mimetizzare l’alluvione dei pascoli, il mare in montagna, il blu nel verde. Da Montespluga il sentiero costeggia il lago prima di attraversarlo sul camminamento della diga. A guardar giù si ha un assaggio di quel che ci aspetta. Un sentiero che corre agganciato a strapiombi rocciosi, con muri di sostegno, catene e – un tempo – gallerie che paravano da massi e neve. Perché qui si saliva sempre, estate e inverno. Adesso la Statale 36 del Passo chiude a novembre e riapre in primavera. Mentre allora il percorso veniva battuto con griglie metalliche trainate da cavalli, mentre i carichi risalivano a dorso di mulo, portati dai membri delle sei congregazioni di somaggeri, che avevano il monopolio dei trasporti per conto delle grandi famiglie di spedizionieri di Coira. Oggi è ben mantenuto, con catene di sicurezza ancorate alla parete nei punti più esposti, un percorso suggestivo, dove stare attenti, con il rumore dell’acqua che sale dal basso, qualche capra che senti e non vedi sull’altro versante tra larici e abeti, la diga che incombe, un angolo di cielo che si allarga tra le nuvole. In realtà non è così terrificante, non in una giornata di sole d’estate. Non è così che lo vissero Erasmo da Rotterdam, che confessò di aver concepito qui il suo Elogio della follia, o il generale napoleonico Macdonald che lo affrontò con 50mila uomini e ne perse a bizeffe, scivolati nell’orrido. Non certo tremendo come lo descrissero gli scrittori romantici. Il 30 maggio 1788 passò Goethe, ma non lasciò parola. Un suo amico pittore, Ludwig Grimm, transitato nel 1817, scrisse: «Abbiamo cavalcato per gole così profonde che spesso sembrava davvero notte, e al lato dello stretto sentiero c’erano profondità immense. (...) Non posso dire quanto la strada sia interessante per un pittore: c’è tutto quello che si può vedere di grandioso, di terrificante, di pauroso». Per scoprire queste storie si scende a valle, a Campodolcino, dove c’è il Muvis, museo della Via Spluga che racconta di come il transito transalpino rese ricche alcune famiglie, la valle trafficata e frequentata da ospiti illustri, tra cui Giosuè Carducci, presenza fissa negli scomparsi Grand Hotel.
Ma a Campodolcino si arriva solo il giorno seguente. Si passa il ponte degli svizzeri, un ponticello in legno che si dice sia stato sistemato da un manipolo di uomini dell’esercito svizzero: smessa la divisa – altrimenti sarebbe stata un’invasione – hanno ripristinato quel che il torrente s’era portato via, non potendo sopportare che quella antica strada andasse in malora. Poi la valle si allarga, piano piano. Tra pozze in cui nuotano trote spaventevoli, prati in cui pascolano mucche brune alpine e alpeggi con asini silenziosi si scende fino a Isola. Fino a quando, nel 1821, gli austriaci hanno aperto la carrozzabile, qui le merci venivano messe sul dorso dei muli prima di intraprendere la parte più impervia del percorso. La locanda del Cardinello è testimonianza vivente di quell’epoca. Dal Settecento la gestisce la famiglia di Martino Raviscioni, oste settantenne che tiene onore al significato antico della parola, ovvero il padrone di una locanda dove si trovano vitto, alloggio e belle chiacchiere. Nove fratelli, una vita di lavoro in Svizzera, Martino della sua valle conosce tutto: da dove nidificano gipeti e aquile a chi sta sistemando la baita. Ricorda le storie di quando c’erano gli operai a costruire la diga di Isola e di quando nel 2000 uno svizzero, Kurt Wanner, decise di rivitalizzare questa via e lui gli ha creduto, investendo per accogliere i camminatori. È stato premiato: ogni anno ne arrivano sempre di più, si fermano per cenare nella stüa di legno annerita, assaporando bei racconti e un piatto di gnocchetti chiavennaschi annegati in burro e formaggio. «E guai a chiamarli pizzoccheri, altra valle» dice Martino. Servono come necessaria riserva energetica per il giorno successivo, quando dai mille metri di Isola si scende ai 333 di Chiavenna, passando per Campodolcino, immersa tra conifere e prati, e poi infilandosi in una vallata sempre più profonda, quasi sfregiata dalle frane che con cadenza secolare – l’ultima ha quasi spazzato via il santuario di Gallivaggio – rovinano a valle. Si procede a balzi, tra boschi di immensi castagni, massi altrettanto immensi che diventano quasi scalini e pianori dove si trovano frazioni dai toponimi antichi, poche case di pietra grigia che danno l’idea di non esser abitate. Il contrario di Chiavenna: dopo essersi fatta desiderare – la discesa stanca eccome – accoglie con un’atmosfera da sabato del villaggio. Altro che galletti.