di Stefano Brambilla
Che cosa significa vivere a contatto con il grande plantigrado? Per capire come è possibile la convivenza uomo-animale siamo stati nel Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise
C’è movimento, mezz’ora prima dell’alba, a Gioia Vecchio. Una alla volta, le auto lasciano la statale 83 e si infilano dietro la chiesa di S. Vincenzo Martire. Non che ci siano cartelli di qualche tipo, o un bar che offra cappuccio e brioche. Dietro la chiesa, sproporzionatamente grande rispetto al grumo di case che le sta attorno, c’è solo un panoramico belvedere, una lunga balconata naturale che dà su una valle silenziosa. Dai mezzi parcheggiati escono loschi figuri in tute mimetiche, muniti di giacche e berretti – perché fa freddo a 1400 metri prima del sorgere del sole – e di un arsenale talmente avveniristico da far impallidire la Cia. Binocoli, cannocchiali, teleobiettivi giganti, treppiedi in carbonio, visori termici. Senza dire una parola, posizionano i loro strumenti sulla balconata. E iniziano a scandagliare la valle, cespuglio per cespuglio, radura per radura. Li imitiamo: d’altronde, siamo qui per lo stesso motivo. «Non è un segreto – ci sussurra Umberto Esposito, la nostra guida – che la testata del Vallone Macrana sia la migliore località del Parco per osservare l’orso marsicano». E la più facile, visto che basta scendere dall’auto e aspettare. Certo, bisogna avere fortuna, oltre che pazienza: il bearwatching non è sempre coronato da successo, l’orso non si fa vedere tutti i giorni. Ma a Gioia Vecchio c’è sempre qualcosa da scoprire, come in una caccia al tesoro da cui si esce sempre vincitori: tra gli alberi da frutto del fondovalle e l’intrico di siepi e boschetti, Umberto ci mostra prima un branco di cerve, poi due caprioli solitari che risalgono il versante, poi una volpe che esce guardinga dal bosco, mentre una poiana sorvola la valle ai primi raggi del sole.
Alla fine non abbiamo visto l’orso, quella mattina. Ma abbiamo iniziato a capire un paio di cose. La prima è che il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise offre scenari ed emozioni da wilderness americana, ormai così inconsueti in Europa. La seconda è che la presenza dell’orso, da queste parti, è sempre tangibile: lui c’è, anche se non si vede. Lo si capisce da quante persone lo cercano, soprattutto per scattagli una foto, ma anche dal numero di ristoranti, negozi e b&b intitolati a suo nome, soprattutto a Pescasseroli, la sede dell’area protetta; e dai cartelli che invitano alla prudenza in auto, a non seguirlo in caso di incontro, a rispettare i punti di osservazione. D’altronde, l’orso marsicano vive solo qui. «È un mezzo miracolo, a pensarci bene, che un grande mammifero come l’orso sia riuscito a sopravvivere in un Paese densamente popolato come l’Italia» spiega Umberto, che con la sua compagnia Wildlife Adventures porta i turisti a scoprire la natura dell’area. «Lui è il simbolo del Parco, la specie più carismatica e anche quella che misura l’integrità del territorio. Ma la situazione non è certo rosea: oggi ne rimangono soltanto tra i 50 e i 60 esemplari». C’è da spiegare subito che l’orso marsicano è diverso dagli altri orsi bruni, compresi quelli che sono stati reintrodotti in Trentino, e per questo ancora più prezioso. «È una sottospecie più piccola e geneticamente separata dalle popolazioni alpine e balcaniche» spiegano Angela Tavone e Mario Cipollone, volontari di “Salviamo l’Orso”, che incontriamo nella sede del Parco. «Per darti un’idea, i maschi pesano tra i 130 e i 200 chili, mentre gli orsi alpini tra i 250 e i 300 chili». A prescindere da altre considerazioni, e a differenza da quanto realizzato in Trentino, non è possibile quindi effettuare reintroduzioni per aumentare la popolazione: altri orsi uguali non esistono al mondo. «L’unica via è quella di proteggerla il più possibile e di creare corridoi ecologici per farla espandere in altri territori: per questo è nata la nostra associazione». Una bella storia, quella di “Salviamo l’Orso”, come ci racconta il suo presidente Stefano Orlandini: «Siamo un gruppo di privati cittadini che nel 2012 ha deciso di fare qualcosa per fronteggiare l’estrema precarietà della popolazione di orso marsicano. Ci sembrava di essere perennemente in uno stato di impotenza collettiva: gli orsi continuavano a diminuire, tra avvelenamenti e poche femmine che partorivano. Volevamo attirare l’attenzione pubblica e far passare il messaggio che si poteva operare dal basso per salvare un patrimonio comune».
Alcuni dei pericoli che deve fronteggiare l’orso sono sotto gli occhi di tutti. «Gli incidenti stradali, innanzitutto: per questo abbiamo installato cartelli e segnali sulle strade del Parco» spiegano Angela e Mario. «Soprattutto le perdite delle femmine sono gravi, visto che le orse partoriscono ogni 3-4 anni». Poi ci sono i conflitti con gli allevatori, che in passato hanno avvelenato o sparato ai plantigradi, rei di predare bestiame e di distruggere alveari. «I marsicani sono in realtà orsi all’80 per cento vegetariani, ma episodi di predazione capitano sempre» raccontano i volontari «per questo andiamo a costruire recinti elettrificati intorno alle arnie e agli ovili, mettendoli in sicurezza». In caso di predazione documentata, peraltro, il Parco interviene con gli indennizzi. E gli indennizzi, ci raccontano, sono sostanziosi e arrivano in media appena due mesi dopo gli episodi. Ma gli orsi non conoscono i confini dell’area protetta e spesso si spingono al suo esterno: ecco perché l’azione di “Salviamo l'Orso” e di altre associazioni diventa così importante. «Dal 2015 al 2018 abbiamo operato con azioni di prevenzione del conflitto uomo-orso in quella che abbiamo chiamato “Comunità a misura d’orso del Genzana”, in un’area protetta a nordest del Parco spesso frequentata dagli animali. E i risultati sono stati di grande soddisfazione: incursioni diminuite, nessun incidente, abitanti locali più tolleranti verso gli animali». L’obiettivo è proprio quello di lavorare con le comunità e gli enti perché gli orsi possano lentamente occupare anche altre zone vicine e idonee alla loro sopravvivenza, come i Parchi della Majella, del Sirente Velino, dei monti Ernici e Simbruini. A dare un ulteriore sostegno – morale e finanziario – a “Salviamo l’Orso” è arrivato anche il filantropo britannico Paul Lister, che con la sua TENT (The European Nature Trust) finanzia progetti di conservazione in Europa e nel mondo. «Il Parco è un vero hotspot di biodiversità a livello europeo – ci dice – e voi italiani siete così fortunati a poterne godere! In Gran Bretagna tutti i grandi carnivori sono scomparsi da tempo». Come dire: vi rendete conto della ricchezza del vostro territorio? Paul sta contribuendo soprattutto alla realizzazione di misure di prevenzione, alla vaccinazione dei cani da pastore per prevenire l’insorgere di malattie trasmissibili alla fauna e all’educazione. Perché ci sono altri pericoli meno visibili, per l’orso.
«Nello scorso agosto abbiamo avuto un afflusso turistico fuori dall’ordinario» racconta Luciano Sammarone, direttore del Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. «Sono arrivate dalle nostre parti persone che forse per la prima volta entravano in un’area protetta. E che una volta arrivati al centro visite di Pescasseroli pensavano che il Parco fosse quello, cioè che fosse circoscritto al museo, al giardino botanico, ai recinti dove teniamo gli animali che non possono essere rilasciati. La gente arrivava e chiedeva: “È questo il Parco dell’orso?”». Logico: tanti turisti portano benessere, ma in un’area fragile come un parco nazionale un’ignoranza diffusa può provocare anche danni. «Quest’estate tutti volevano vedere Amarena, un’orsa che ha partorito quattro cuccioli» raccontano le guardaparco Paola e Nadia. «Siamo state tutto il tempo a controllare la gente, quando la famiglia di orsi si avvicinava ai nuclei abitati, una volta è arrivata a San Sebastiano dei Marsi proprio nel mezzo della festa patronale... non ti dico quelli che li rincorrevano per farsi un selfie». Gli orsi marsicani non hanno mai attaccato nessuna persona, ma il rischio, più che altro, si chiama abituazione: cioè, che i piccoli si abituino troppo all’uomo e non lo riconoscano come un potenziale pericolo da cui stare alla larga. Mentre saliamo verso il rifugio Pesco Di Iorio, immersi tra i faggi dai tronchi contorti, nel bel mezzo di un autunno sfolgorante, riflettiamo sul fatto che ognuno, qui, ha una sua personale “storia con l’orso”. Non c’è abitante che non racconti un incontro, un aneddoto, un episodio riportato. È forse questa la grande differenza di quanto succede in Trentino: su queste montagne gli orsi sono sempre stati parte della vita quotidiana, fin dalla notte dei tempi. Sono entrati nella cultura collettiva. E la maggior parte degli uomini ha imparato a conviverci, nel bene e nel male, per amore della natura o per sfruttamento imprenditoriale. Paola racconta di quanto suo nonno fosse stato un grande oppositore dell’istituzione del Parco, quando il Parco nacque – peraltro su proposta degli stessi abitanti – nel 1922, grazie anche alla spinta lobbistica di associazioni come il Touring. Negli anni il nonno ne era diventato un grande sostenitore, comprendendo quanto fosse indispensabile per conservare il patrimonio che aveva sempre vissuto come suo. È tutto in mano nostra, in fin dei conti: siamo sempre noi che facciamo pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Un equilibrio fragilissimo, quello tra uomini e orsi d'Abruzzo. Ma quel filo su cui stare in equilibrio, grazie a persone come quelle che abbiamo incontrato diventa certamente un po’ meno sottile.