Il viaggiatore. Byron e il Partenone

Il racconto del primo viaggio in Grecia del poeta romantico e la sua emozione al cospetto del Partenone

Non era facile immaginare che quell’imprevedibile ventenne in grado di addormentarsi sul ponte della nave durante una tempesta sarebbe diventato il poeta più famoso del secolo. Allora era solo un ricchissimo lord partito dall’Inghilterra per esplorare il mondo. Quel «mistero avvolto in un velo e circondato da un alone» affascinava e respingeva i compagni di viaggio. Dopo un naufragio in Albania proseguì a cavallo. Il 24 dicembre 1809 avvistò Atene. Più che una città la capitale era allora, come l’aveva definita la guida, un villaggio di diecimila abitanti, dominato dai conquistatori turchi che abitavano l’Acropoli. Colpito dai ruderi, il suo cameriere aveva esclamato: «Ah, my lord, che bei caminetti si potrebbero fare con tutto questo marmo!». Byron invece nascondeva la sua emozione davanti a quel luogo mitico, facendo finta di interessarsi alla storia di Pericle.

In Grecia ogni cosa si trasfigurava, diventava un presagio, come quando sul Parnaso aveva visto quelle che secondo lui erano dodici aquile e secondo il suo amico John Hobhouse dei banali avvoltoi. Intanto quello che era destinato a diventare il più grande seduttore dell’Ottocento si era innamorato di tre sorelle, «tre divinità», che giocavano sotto il balcone della sua stanza. Aveva reso omaggio al fascino di una di loro tagliandosi davanti a lei con la punta del pugnale. Sotto i suoi occhi gli inviati di lord Elgin avevano danneggiato per sventatezza le metope del Partenone che il lord aveva comprato dai turchi per portarle in Inghilterra. Byron lo disprezzava a tal punto che si era arrampicato sul frontone dell’Eretteo per cancellare il nome inciso da Elgin, scrivendo al suo posto: «Quod non fecerunt Gothi/Hoc fecerunt Scoti». Quello che non avevano fatto i barbari, l’aveva fatto lo scozzese Elgin.

Non era l’unica volta che Byron incideva i marmi. L’aveva fatto anche a Capo Sunio, dove il mare «violetto» affiorava tra le bianche colonne di un tempio. «Mi piacciono i greci, sono dei furfanti accettabili con tutti i vizi dei turchi, ma senza il loro coraggio». Alcuni di loro erano belli, peccato che le donne non fossero altrettanto attraenti. Nel 1810 era di ritorno dopo un soggiorno in Turchia. Questa volta abitava nel convento dei cappuccini, dove prima di lui era passato Chateaubriand, davanti all’Imetto. «Ecco quel che si chiama un panorama!». Dopo la partenza dell’amico, Byron si era abbandonato a un’allegra licenziosità.

Tornò con un notevole bottino: una serie di marmi antichi, quattro teschi arcaici presi dai sarcofagi, quattro tartarughe, due servitori greci e una fiala di cicuta come quella bevuta da Socrate, gli avevano detto che era antica. Ci sarebbe stato anche un levriero, ma purtroppo era morto durante la traversata. Mentre meditava sulla labilità della gloria umana impersonata da quelle rovine, si chiedeva chi sarebbe riuscito a liberare la Grecia dal dominio dei turchi. «Bella Grecia! Triste reliquia di una grandezza svanita!/ Immortale benchè svanita, e, benchè caduta, grande!».